Primo movimento.
La ribellione e la memoria.

Bx un giorno si interrogò per cercare di ricordare quando, come, e perché avesse smesso di credere nell’esistenza di dio… Per la verità, che dio non esistesse, che fosse una invenzione, non gratuita, ma nemmeno necessaria, da tempo ne era convinto, ma non aveva mai indagato modi e tempi con cui questa, che sentiva come una emancipazione, come una liberazione che era andato conquistandosi nel tempo, avesse preso corpo.
E si chiese, per cominciare, se quel ‘tempo del credere’ fosse mai veramente esistito per lui. E se era esistito, in che modo era stato vissuto.
La risposta che si diede suonò contraddittoria: sì, certo, aveva creduto in dio… ma forse no.
Si chiese allora la ragione di tanta incertezza.
E trovò questa risposta: quasi sicuramente l’incertezza era dovuta al fatto che ‘credere’ era un termine non in grado di rendere giustizia a ciò che gli sembrava di avere vissuto. Riflettendoci, infatti, giunse alla conclusione che non si era trattato tanto di credere, quanto – ecco l’espressione giusta – di portare un abito che gli era stato cucito addosso. Per necessità.
Gli era stato cucito addosso come necessità a suo modo assoluta da parte di chi, avendo richiesto e procurato la sua esistenza, si era dovuto assumere il compito di provvedervi per le prime, fondamentali, necessità, sia per spinte, come si dice, naturali, biologiche (quale animale non si dà da fare per la propria prole?), sia per obblighi, per così dire, culturali, sociali (o anche, volendo, razionali, etici: come si può ‘ragionevolmente’ sentirsi parte della comunità in cui ci si trova a vivere senza rispettare ciò che tale comunità ritiene indispensabile rispettare?); e chi aveva richiesto e procurato la sua esistenza, nel suo caso, si era premurato anche, e per certi versi soprattutto, di porre la necessità di riconoscere ed ossequiare un dio da cui tutto dipendeva. Dipendeva sia quanto, con tutta la buona volontà, poteva dipendere solo in minima parte da coloro che avevano richiesto e procurato la sua esistenza, e che pure era quanto di più necessario ‘in concreto’ essi sentissero di dover richiedere (dalla ‘buona e sana costituzione’, alla ‘fortuna che nella vita è ciò che più conta’), sia quanto non poteva in nessun modo dipendere da loro, e che pure costituiva il desiderio, la speranza, infine la fede, che la morte di chi avevano voluto che vivesse non fosse, per lui come per se stessi, la fine di tutto. E per questo non c’era proprio niente oltre ‘il rimettersi a Dio’.

Queste persone poi, che avevano richiesto e procurato la sua esistenza, tutto ciò lo avevano ricevuto in eredità da quanti a loro volta – avendo richiesto e procurato l’esistenza di queste persone – avevano indicato loro che solo da dio poteva dipendere ciò che non dipendeva, o dipendeva solo in minima parte, da essi stessi. E così via.
E chissà da quanto tempo, chissà da quante generazioni, funzionavano così le cose. Dalle sue parti. O forse, anche se con modalità diverse, da sempre e da qualsiasi parte.

Ma in che modo aveva portato – si chiese quindi BX – questo abito che gli era stato cucito addosso per proteggerlo?
La risposta gli sembrò perfino ovvia: in modo del tutto naturale, cioè con la più totale noncuranza, come non si cura più di tanto ogni bambino delle cose che si aspetta gli procurino gli adulti, considerando ciò, appunto, del tutto naturale, del tutto dovuto, e che non ha alcun senso mettere in discussione. E che naturalmente nemmeno BX, almeno fino ad un certo momento, aveva messo in discussione…

Ecco, ma quando e come era giunto quel momento? Quando aveva incominciato, in altre parole, a mettere invece in discussione, in realtà a sentire sempre più stretto, questo ‘credere in dio’, a cercare di togliersi di dosso questo abito che stava indossando con sempre crescente disagio?
Sicuramente – fu il risultato della sua indagine – non prima di avere messo in discussione tante altre cose, anche se ‘mettere in discussione’ gli sembrò un’espressione troppo forte, e comunque impropria, per significare in realtà un semplice, puramente istintivo, moto di ribellione nei confronti di tutto ciò che sentiva di non poter più accettare…
Ma non era proprio quel ‘sentire di non poter più accettare’ la forma più completa, più radicale, più vera, del mettere in discussione?
BX lasciò comunque cadere la questione, e si concentrò soltanto nella ricerca di ciò che per primo aveva messo in discussione, di ciò che aveva sentito inizialmente di non poter più accettare…
Qui però si accorse che, per questa impresa, la memoria non poteva aiutarlo più di tanto. O meglio, non era attendibile come memoria ‘oggettiva’, cioè affidabile proprio come memoria, in quanto troppo condizionata da un presente che, invece di farsene coinvolgere senza opporre resistenza, la stava dirigendo e orientando secondo certe sue esigenze, complesse e tutt’altro che ben definibili, ma al presente inestricabilmente legate.
Tuttavia si sforzò di ricordare ciò che per primo aveva suscitato quel moto di ribellione che – come avrebbe appreso poi da certe letture – gli psicologi della cosiddetta età evolutiva considerano (adottando per affermarlo procedure scientifiche) una necessaria manifestazione di autonomia, la rivendicazione di una propria identità, per quanto confusa inizialmente possa essere…
Ma a questo punto le carte a disposizione di BX, invece di dispiegarsi con la necessaria trasparenza, si imbrogliarono ancor di più, e fu proprio ciò che aveva appreso dai libri ad imbrogliargliele ulteriormente, a rendere sempre meno affidabile il ricorso alla memoria: era davvero in grado di ricordare ciò che era capitato a lui, o stava solo applicando a se stesso ciò che aveva letto nei libri? Come poteva immaginare, immaginarsi, di aver avuto una evoluzione, uno sviluppo, che non avesse rispettato le scadenze, le scansioni, che interi gruppi di agguerriti studiosi avevano formalizzato sulla base di accurate, ripetute, osservazioni, e ritenere di poter ricavare dalla propria personale esperienza qualcosa che non fosse già previsto nei libri che aveva letto, magari con più di una perplessità, ma che comunque gli erano sembrati, e continuavano a sembrargli, l’unico luogo dove gli si poteva ‘spiegare’, o aiutarlo a spiegarsi, aiutarlo a capire, cosa avrebbe potuto essergli successo? Non aveva anche lui, come tutti (o come riportavano i libri?) sopportato sempre meno una tutela parentale che, invece di fornirgli la sicurezza necessaria per affrontare le insidie dell’esistenza, sembrava gli sottraesse ogni giorno di più la possibilità di quelle nuove esperienze cui aspirava con tutto se stesso, e vi aspirava proprio perché non le conosceva, ma sapeva, meglio, sentiva, che popolavano un mondo tutto da esplorare che invece gli veniva precluso? E non aveva anche lui, come tutti (o come si poteva leggere nei libri?), di fronte alle prime disillusioni che queste esperienze, così cercate ma anche così inconsciamente temute, gli andavano procurando, finito per incolpare, prima il proprio ambiente famigliare, poi la classe sociale cui apparteneva, infine la società nel suo complesso, sentendo di doversi opporre, di non poter accettare, ciò che da loro gli veniva prospettato e proposto? Certo, sia i tempi (la durata) sia l’intensità (l’impatto psicologico) di questi ‘rifiuti’ non erano stati codificati nei libri, o lo erano stati con forzature che altri libri avevano poi denunciato e continuavano a denunciare, ma in definitiva come poteva stabilire con certezza se gli sembrava di aver percorso un cammino in qualche modo codificato perché obbligato, o non invece obbligato perché codificato?… Se non avesse letto quei libri, se non fosse stato condizionato da un presente a sua volta condizionato da quelle letture, che toni e che contenuti avrebbe assunto il suo sguardo retrospettivo? Avrebbe preso forma allo stesso modo, con gli stessi connotati?

Ecco, ma questo valeva anche per quanto riguardava dio, la sua ‘ribellione’ a dio?
Forse…
Anzi, no.
O meglio, non proprio.
Qui gli sembrò che le cose avessero proceduto in altro modo, che fosse successo qualcosa di diverso. Qui l’impresa – pur avendo per tanti aspetti gli stessi connotati che i libri dicevano essere propri di ogni ribellione, di ogni rifiuto inteso come rivendicazione di una propria autonomia, di una propria ‘personalità’ – aveva richiesto un di più di coinvolgimento non ascrivibile solo ad una eventuale, ‘documentata e codificata’, biologica scadenza…
O meglio, sicuramente poteva essere stato anche questo (una biologica scadenza, con o senza l’avallo dei libri), ma sotto questo aspetto, in quelle circostanze, tutto pareva essere rientrato, per così dire, e almeno per lui, nella norma, in una certa norma: quella prevista e abilmente contrastata da quei guardiani di dio cui evidentemente spettava il compito – dalle sue parti, ma forse ovunque e da sempre – di riportare all’ovile le pecorelle smarrite, esperti com’erano, questi guardiani, e per una secolare esperienza che pareva ormai entrata evidentemente a far parte del loro codice genetico, di questi recuperi. Così tutto (tutta la sua insofferenza nei confronti di una fede che sentiva sempre più estranea… ché, se fede doveva essere, non gli trasmetteva nessuna reale fiducia) gli era stato presentato come passaggio naturale, come scadenza obbligata, in un percorso che sarebbe stato ingenuo considerare agevole, privo di ostacoli, costruiti questi ultimi ad arte da un Maligno, che magari si travestiva da Natura, che non bisognava ascoltare più di tanto, pena la perdita di ogni ‘valore’, di ogni ‘principio’, di ogni ‘morale’…
E se non fosse bastato questo a convincerlo della inattendibilità di quelle sirene, gli era stato sciorinato un campionario tale di persone – meglio, di personaggi, e alcuni di questi celebri, e fra questi più d’uno che BX, nell’età che sembra (lo dicono sempre i libri) caratterizzata dalla ricerca spasmodica di modelli da imitare, tanto ammirava – traviate e poi rientrate, da ‘figliol prodigo’, all’ovile, da togliergli ogni dubbio circa la natura, e quindi la dinamica, di queste ‘deviazioni’. Per cui, messo nel conto di una naturale tendenza a fuggire dalle proprie responsabilità il moto di ribellione nei confronti di un dio (anzi, di un Dio, con l’iniziale maiuscola, come allora gli sarebbe parso blasfemo non connotare anche graficamente) volendo fuggire dal quale evidentemente voleva fuggire poi, appunto, da ogni responsabilità, non solo doveva essersi sforzato di continuare a credere, ma doveva aver fatto rientrare in questo sforzo anche la necessità di contrastare ogni altro impulso alla ribellione. Contro la famiglia, contro l’ambiente sociale in cui era costretto a vivere, contro la società tutta. Gratificato in questo, evidentemente, da una sorta di pacificazione con se stesso (ribellarsi doveva essere sì naturale, ma anche, e magari proprio per questo, doloroso) il cui merito non poteva che essere ascritto alla volontà di continuare a credere in dio. In Dio.
Quindi, se poi c’era stata comunque la sua emancipazione da dio, questa doveva essere avvenuta al di fuori di una presunta naturale insofferenza verso tutto ciò che costituisce un obbligo cui la vita ci costringe, perché, da questo punto di vista dio, anzi, Dio, doveva aver svolto la sua funzione – come poi gli avrebbero suggerito altre letture, quelle dei testi di psicanalisi, soprattutto là dove si parla della ‘uccisione del Padre’ – di un Super Io che può anche diventare soffocante, ma che ha il compito di preservarci dalla autodistruzione costringendoci alla vita etica.
No, se nonostante tutto ciò era pervenuto alla convinzione che dio non esisteva, doveva essere intervenuto qualcosa d’altro, doveva essersi trattato di una impresa più matura, più consapevole…
Forse.
Ma perché ‘forse’? Perché ancora una perplessità?
Perché – se si voleva essere il più possibile onesti con se stessi, come BX si sforzava di essere – poteva trattarsi, ancora qui, di stare vedendo tutto con un ‘senno di poi’ che inevitabilmente colora di sé un passato la cui vera dimensione, recuperata dalla memoria, non può che esserne condizionata, se non addirittura deformata…

Ma fu a questo punto, di fronte a questa nuova perplessità – nuova, ma ricorrente come perplessità – che BX credette di potersi dotare di un primo decisivo punto fermo, di un riferimento irrinunciabile con cui orientarsi nel percorrere una strada altrimenti destinata a biforcarsi all’infinito, cioè a non portare da nessuna parte: non era tanto in questione il credito da dare o non dare alla memoria – si convinse – quanto il ripercorrere le tappe di una emancipazione i cui tempi reali (naturali, biologici, ‘reali’ in questo senso) di attuazione non importavano più di tanto, mentre importava ripercorrerne i passaggi, per così dire, teorici. Formali.
Perché?
Ma perché – e questo fu il vero elemento che gli sembrò conferire la luce giusta alla sua ribellione – tutto era da considerare come avvenuto sostanzialmente in un susseguirsi di riflessioni, di pensieri, di considerazioni, i quali, anche se intrecciati, e condizionati, inevitabilmente con emozioni, speranze, paure e angosce varie legate alle scadenze biologiche, erano, dovevano essere, i veri punti di riferimento di un viaggio di quella natura. Tutto, in altre parole, doveva essere riferito, e attribuito, al proprio essere – come semplice constatazione, ma anche come fondamento che fonda e fonderà sempre se stesso – un animale pensante. Come è ogni uomo.
La prima considerazione che sentì di dover fare, senza curarsi se, quando, e come, l’avesse già fatta in precedenza, fu quindi proprio questa: il problema dell’esistenza o meno di dio è un problema teoretico. Cioè un problema che andava affrontato e risolto – lo fosse o non lo fosse stato fatto in questi termini in precedenza – sul piano puramente speculativo, ascoltando prima di tutto (e a conclusione di tutto) una voce della ragione intesa come componente strutturale di quell’animale pensante che è l’uomo. Tutta da analizzare e definire, questa ‘voce’, senza dubbio, ma il cui ascolto era l’unico modo, l’unico mezzo cui ricorrere per dirimere una questione di quella natura.
Sì, perché – concluse BX – abbandonare lo strumento razionale proprio di fronte al problema esistenziale fondamentale, che è il problema del significato da dare alla propria esistenza, è lo stesso che abdicare alla propria natura di animale pensante, cioè alla propria umanità, proprio quando viene messa in gioco come umanità. Se, proprio di fronte alla scadenza cruciale che riguarda la vita di ogni uomo, si rinuncia a ciò che – senza per questo avallare arbitrari antropocentrismi – distingue l’uomo dagli altri esseri viventi, dopo questa rinuncia tutto ci si può attendere meno che una soluzione attendibile di un problema che è esclusivamente umano. Certo, l’uomo, proprio in quanto animale, sia pure pensante, è anche animale, cioè puro fatto, puro evento, biologico, ma se il suo essere evento biologico contempla anche la comparsa della facoltà raziocinante, l’ultima parola (quella parola che è facoltà tutta umana) circa la propria ‘animalità’, circa il modo di considerare e vivere la propria animalità, non può che spettare alla ragione, intesa come esercizio della facoltà di pensare, di riflettere.
Questo – concluse BX – era ciò che doveva essere successo, che comunque doveva succedere, come supporto reale del suo approdo ateo. Questo doveva essere recuperato senza preoccuparsi più di tanto della successione temporale, del concatenarsi nel tempo storico della propria storia personale, di quanto era accaduto…

Ma stavano poi veramente così le cose? Era veramente dall’ascolto di questa ‘voce della ragione’ che aveva trovato fondamento la sua convinzione che dio non esisteva? Non si era trattato, non si stava trattando, di una eccessiva semplificazione, o peggio, di una razionalizzazione – secondo una certa vulgata psicanalitica che, una volta conosciuta, BX aveva deciso di tenere sempre presente – tendente solo a presentare a se stessi un quadro chiaro e netto, senza ombre né sfumature, di una realtà invece assai più complessa e sfuggente?
E inquietante!
E si era mai chiesto veramente, BX, cos’era questa ‘voce della ragione’, cui per altro sentiva che solo dovesse spettare l’ultima parola?
E, più in generale, non era il caso di partire per un viaggio intorno a se stesso, dentro se stesso, che fosse in grado di mettere davvero in discussione tutto perché forse era proprio questo il vero significato da attribuire alla sua ribellione a dio? Non significava prima di tutto, questa ribellione, proprio la possibilità di respirare a pieni polmoni l’aria di una condizione che non avrebbe mai creduto di raggiungere e che andava sfruttata per tentare di sondare orizzonti del tutto nuovi, sicuramente assai più ampi che non quelli sondati in precedenza?
Forse sterminati, ma che ora non lo avrebbero intimidito più come prima, non gli avrebbero imposto la prima soluzione di comodo circolante nei paraggi (in realtà ancora eredità di quell’abito protettivo che gli era stato ‘cucito addosso’) come fino ad ora gli sembrava fosse sempre accaduto. Complici certe letture…

E allora, cosa si doveva intendere, cosa intendeva lui, BX, per ‘voce della ragione’?


 

 

Secondo movimento.
La ‘voce della ragione’.

Fu chiedendosi cosa intendesse per ‘voce della ragione’, che BX si rese conto di come in realtà – al di là di un impulso istintivo (biologico), e mescolato a tanti altri impulsi pure istintivi, ad affidarsi ad essa – la cosa fosse tutta da scoprire.
Così si cimentò nell’impresa. Facendo però tesoro di quanto riteneva dovesse pur sempre essere un punto fermo acquisito: sforzandosi cioè di non farsi irretire nell’illusione di potervi riuscire ricavando il tutto da esperienze relative alla propria storia personale recuperata dalla memoria. Storia personale che aveva fatto, e continuava a fare, da sfondo, sicuramente, e che sicuramente andava sempre tenuta presente come elemento condizionante ogni scelta, ma che era impossibile da rievocare al di fuori dei condizionamenti che su questa rievocazione esercita a sua volta la forza della speculazione. Cui quindi occorre pur sempre lasciare l’ultima parola, visto che alle parole stava ricorrendo, che ad esse si stava affidando, ma che, proprio per questo, non doveva mai lasciare riposare soddisfatte su se stesse, specchiarsi solo in se stesse; dovevano al contrario essere sottoposte ad una sollecitazione continua. Se necessario, maniacale.
Dunque, cos’era questa ‘voce della ragione’?…

Cos’era – gli venne pur sempre da chiedersi – oppure cos’era stata per lui?
Cos’era, cos’era! Il rifletterci ora, il provare a definirla ora, era l’unico modo possibile per rintracciare cos’era stata per lui, e nello stesso tempo cos’era.
Anzi, cos’è. Cos’è in sé, al di là delle nebbie che hanno sempre avvolto, e che presumibilmente continueranno sempre ad avvolgere, la questione.
Per prima cosa BX si trovò a constatare un dato, ovvio e nello stesso tempo inquietante: si trattava di una voce che non può che provenire da dentro, che poteva essere udita ed ascoltata solo ascoltando se stessi, cioè la propria cosiddetta interiorità.
Ma questo cosa comportava?
E fu proprio di fronte a questa prima necessaria domanda (necessaria perché si presentava come esigenza) che BX sentì di dover mettere alla prova come mai prima il suo proposito di procedere sondando fin dove possibile, con tutto ciò di cui disponeva in termini di capacità speculativa, ogni questione. E fu di fronte a questa prima domanda/esigenza che individuò in prima istanza – proprio perché la ‘voce della ragione’ era una voce che comunque non poteva che provenire dalla interiorità – una serie di rischi da evitare in quanto risposte ingannevoli sempre incombenti, sempre in grado di farlo dirottare dal suo proposito di seguire ‘la forza della parola’.
Si trattava di due ordini di rischi, in rapporto speculare.
Il primo, inevitabile, rischio da evitare con forza era quello implicito nelle considerazioni fatte fin lì, e che, non trovando di meglio, definì come ‘rischio psicologistico’ (solo in seguito lo ridefinì – senza per altro sconfessarne la natura tutta psicologica, ma ritenendo di coglierne così la vera genealogia – come ‘rischio storicistico’). Cos’era?
Era il rischio, perfino ovvio, che il dover ricorrere all’ascolto della propria interiorità inevitabilmente trascina con sé. Era cioè il rischio inerente al fatto che l’ascolto di sé può essere inteso come un invito a ‘scavare dentro’ che può trasformare la ricerca dei moventi veri del proprio agire in una scorribanda nella propria storia destinata a impantanarsi nei meandri di una interiorità che si presenta come il più labirintico dei percorsi. In realtà come un pozzo senza fondo.
In che senso?
BX – riprendendo e adattando le sue prime impressioni/considerazioni sulla memoria – così teorizzò la questione. La ‘propria storia’, in quanto necessariamente generalizzata e storicizzata, cioè inserita in un contesto che non può non averla condizionata e definita, non è mai storia veramente personale, e anzi, proprio per questa necessità, è in massima parte – se si volesse insistere nel cercarla e volerla come davvero personale – pura astrazione, pura invenzione. In un certo senso, pura ideologia. Da un altro angolo visuale, ma convergente sullo stesso punto, una storia personale, se la si vuole raccontare, sia pure solo a se stessi, può essere ripercorsa solo con quella memoria sulla cui attendibilità proprio come memoria – questo gli era ormai chiaro – non c’è da contare, per cui c’è da aspettarsi di tutto, meno che si tratti di qualcosa di veramente personale, perché gli ‘strumenti’ che la memoria deve comunque usare – cioè il linguaggio cui deve ricorrere per rendersi accessibile, per diventare fruibile – tutto potrebbero essere meno che personali, in quanto mediati necessariamente da un contesto linguistico in cui si è immersi da cui è giocoforza ricavarli. Ecco allora che non si ha nessuna garanzia che lo ‘scavare dentro di sé’ possa approdare all’ascolto di una ‘voce della ragione’ che trovi in quel modo, cioè nell’analisi della propria interiorità come ricerca della propria storia, la sua vera collocazione… perché tutto si può trovare nella propria interiorità, ma non la spiegazione plausibile del perché e del come vi si trovi una ‘voce della ragione’ che sembra tale proprio perché ‘altra’ rispetto a qualsiasi storia personale. In questo modo la ‘voce della ragione’ rischia continuamente di impantanarsi in un vissuto dal quale emergerebbe in realtà solo come ‘voce della confusione’.
E allora?
Allora, proprio per tentare di ovviare a questo rischio, ecco intanto il rischio – diametralmente opposto, quindi ad esso speculare – in cui BX ritenne non si dovesse mai cadere. Cioè il rischio di considerare la ‘voce della ragione’, certamente qualcosa che, in quanto voce, può ‘parlare’ (e quindi essere udita) solo dalla propria interiorità, ma, visto che lì si trova, che lì è rinvenibile solo come presenza dalle origini imperscrutabili, solo da constatare, posta lì non si saprà mai veramente da chi o da che cosa, e in che modo, ma di cui non si può negare la presenza, ecco che potrebbe essere una voce che parla una sua lingua che a noi compete solo di ascoltare, espressione magari – perché no? – di qualcosa d’altro rispetto al corpo, con una sua natura, e soprattutto un suo destino, ‘altri’ rispetto al corpo. Un corpo, inteso come evento biologico, che, vista la sua natura di evento biologico e il destino ad esso conseguente, non sarebbe in alcun modo in grado di produrre una simile voce, intesa proprio soprattutto a superare questa dimensione puramente biologica. Se non altro ‘spiegandocela’ come tale, cioè rendendocene consapevoli, cosa possibile solo ponendosene in qualche modo al di fuori…
Ma – fu la considerazione di BX – attribuire alla ‘voce della ragione’ una tale origine suonava altrettanto falso del ritenerla ricavabile da un proprio vissuto di fatto non esperibile se non col senno di poi, cioè di fatto inconoscibile proprio come ‘vissuto’. Sembrava solo il rovescio di una stessa falsa medaglia, la risposta sbagliata, il riflesso incontrollato, di fronte all’angoscia che procura ogni impotenza. In altre parole, sembrò a BX solo una misera scappatoia (di fronte alla impossibilità di rintracciare le vere origini di una voce che pure si faceva udire, e udire nella propria interiorità) indicarne la provenienza, l’origine, ‘fuori’ dell’interiorità. In un ‘altrove’ di cui per altro non si sarebbe mai potuto fare l’esperienza… se non ipotizzandola.
Se non, cioè, ‘pensandola’. Un’esperienza quindi – se così la si voleva comunque, e legittimamente, chiamare – tutta compresa in una dimensione che non poteva che essere quella della speculazione, dell’esercizio della ragione, della facoltà di pensare… alla quale facoltà però si rinunciava nel momento stesso in cui la si faceva scaturire da un luogo di cui, non solo non si aveva alcuna conoscenza, ma di cui si poneva l’ignoranza, la ‘necessaria’ ignoranza, come condizione della sua esistenza!
Insomma, in un modo o nell’altro, si rischiava, dovendo dare credito a questo ‘guardare dentro di sé’, di non trovarvi niente che, o non si potesse far risalire in alcun modo a qualcosa cui dare in senso pieno il nome di esperienza (perché ogni esperienza è esperienza solo in quanto viene recuperata dalla memoria, ma dalla memoria necessariamente ‘tradotta’ in e da un presente che vi si sovrappone come unica, autentica esperienza)… o, viceversa ma per la stessa ragione, si rischiava di essere quasi costretti a riconoscere che ciò che vi si trovava proveniva da un luogo di cui non si poteva avere alcuna esperienza. Alcuna conoscenza. Dovendo, in questo secondo caso, lasciar perdere ogni proposito di ricerca e accettare un dato proprio solo come ‘dato’, cioè del tutto al di fuori dal controllo di un sé comunque inteso…
Per esempio (ma era l’esempio che più di ogni altro esempio possibile interessava BX) accettare la ‘voce della ragione’ come ‘data’ da un Dio che pertanto ne diventava il solo vero possessore e gestore; oppure da una Natura di cui si era solo strumenti, solo ‘oggetti’.

Ecco allora che BX si trovò nella necessità – per evitare questi rischi che, da come stava conducendo la ricerca sulla ‘voce della ragione’, si prospettavano come quasi impossibili da evitare – di affrontare la questione in altro modo, di partire adottando un’altra prospettiva, di adottare un altro punto di vista… o meglio, di andare più a fondo nella questione.
Il che, nel caso appunto in questione, gli sembrò significasse dover mettere in discussione, cioè focalizzare l’attenzione e la riflessione proprio su ciò che invece aveva accettato subito come un punto di partenza obbligato per la sua ricerca intorno ad una ‘voce della ragione’ che poteva solo provenire dal proprio interno… cioè da un ‘conosci te stesso’ che BX riteneva certo inevitabile, non sostituibile con alcunché per produrre conoscenza, ma che evidentemente non bastava accettare semplicemente. Si doveva indagare cosa comportava questo richiamo a se stesso (a ‘noi stessi’) come percorso obbligato, in quanto unico possibile per produrre conoscenza.
In altre parole, che tipo di conoscenza poteva essere quella ricavata dal ‘conosci te stesso’?



Terzo movimento.
Il ‘conosci te stesso’ e la conoscenza.


E così BX si pose la domanda: “Quale conoscenza si può trarre da questo ‘conosci te stesso’?”
“Ovviamente quella possibile” – si rispose.
Ma niente gli risultò meno ‘ovvio’ di quanto si trovò di fronte quando provò a saggiare le dimensioni, cioè i confini, cioè i limiti, di questa ‘possibilità’. Perché gli si aprì davanti un ventaglio di domande destinate, più che a rimanere senza risposta, a dare risposte – ma poi si trattava della stessa cosa – che imponevano continuamente nuove domande.
Cominciò col chiedersi intanto – appunto – da cosa questa possibilità doveva essere de-finita. Doveva essere definita da ciò cui deve servire il conoscere o da chi se ne deve servire? E servire per che cosa? E perché? E non sarà questo dover servire a qualcosa o a qualcuno a determinare i caratteri fondamentali di ciò che si conosce, i contenuti propri di ogni conoscenza? E perché queste non sono domande oziose come a prima vista possono sembrare e lasciano invece dietro di sé uno strascico di insoddisfazioni per cui a condizionare tutto, a colorare tutto con una sua angosciante opacità finisce solo per essere un ‘sapere di non sapere’, che già qualcuno aveva teorizzato, che sembra solo un povero espediente dietro cui mettersi al riparo (o forse proprio ci si nasconde) per non essere interamente soffocati dall’ignoranza?
Oppure – ma affrontando lo stesso ordine di problemi – quando possiamo dire di conoscere davvero qualcosa: perché la consideriamo vera o perché la consideriamo utile? Detto in altro modo, quando è vera per se stessa o quando è vera per noi? E perché mai dovremmo fare questa distinzione, dal momento che, in ultima analisi è pur sempre a se stessi, cioè a noi, cioè a ciascuno di noi individualmente, quindi – ritenne di poterne dedurre BX – a BX e a nessun altro, che si deve ritornare?…
E invece no!
E’ proprio quando scatta il meccanismo dell’autocoscienza, della consapevolezza di poter essere consapevoli – dovette correggersi BX – che diventa impossibile sfuggire alla questione della oggettività o della soggettività delle nostre conoscenze. E’ proprio, in altre parole, quando si prende coscienza della coscienza come autocoscienza (cosa inevitabile quando si riflette rispondendo all’esigenza di riflettere sull’esito di ogni riflessione) che l’alternativa ‘per noi’ o ‘per sé’ perde il suo carattere di questione puramente accademica, puramente formale, e diventa invece un quesito esistenziale che chiama in causa – a meno di rimuoverlo rendendolo, appunto, puramente accademico – tutto se stessi. Diventa la propria ragion d’essere, cioè il senso da dare alla propria esistenza. Quell’esigenza di senso, in sostanza, che chiama in causa, che ha sempre chiamato in causa – quali che siano stati i modi con cui ciò fosse avvenuto e i modi con cui si fosse risposto – l’esistenza o meno di dio. Cioè di chi, o di ciò, da cui tutto (era tutt’altro che gratuita, se intesa come esigenza, la cappa protettiva che gli era stata ‘cucita addosso’!) dipendeva e doveva dipendere.
Ed è qui – fu la successiva riflessione di BX, che in seguito considerò sempre valida e necessaria, ma non ancora conclusiva come in un primo momento gli sembrò che fosse – che l’appellarsi alla ragione – se non è solo una fuga precipitosa dalla paura dell’ignoto, ma un consapevole ricorrere all’unico strumento veramente disponibile non trovandone altri veramente fruibili per fronteggiare l’ignoto – reca sempre con sé l’angosciosa sensazione di una specie di tuffo nel vuoto; la sensazione di galleggiare nel nulla appesi solo ad un filo estremamente esile, sempre in procinto di spezzarsi, e tanto più quanto più si usa la ragione per ‘dar ragione’ di se stessa…

Ma è anche qui – ne dedusse con grande, anche se momentaneo, sollievo – che si prospetta quale può essere, se non la risposta, la conseguenza più importante da ricavare dal puro porsi queste domande. E una conseguenza che lo confortò (da cui il momentaneo sollievo) nella sua scelta di rifarsi sempre e comunque alla voce della ragione. Perché è qui – si disse BX – di fronte a questa impasse, che, se si usa la ragione utilizzandone tutte le indicazioni, si può constatare come si entri in pieno – a dispetto di tutte le accuse che le vengono mosse (prima fra tutte quella, una volta che ad essa ci si appelli, di fungere da paravento per cacciare, per esorcizzare, per ‘razionalizzare’, appunto, la paura di vivere) – nella dimensione angosciante dell’esistenza.
Altro che tranquillizzati!
Altro che rappacificati con se stessi!
Mentre per converso è proprio qui – proseguì BX ormai lanciato in questa sorta di difesa della ragione che era anche un’autodifesa –, è proprio di fronte a questa constatazione (quando si è comunque giunti a farla), che può nascere l’impulso autolesivo a gettare la ragione come strumento inservibile… oppure a potenziarla – apparentemente contrapponendosi a questo impulso – in modo tale da fugare tutte le ombre che accompagnano sempre l’esistenza di ognuno (che accompagnano sempre la nostra esistenza proprio come esistenza fisica, corporea, la sola che produce ombre, quelle che invece – non si trattenne dall’ironizzare – non produrranno mai i ‘puri spiriti’) su questo pianeta.
E’ da qui, dalla constatazione (quando si è comunque giunti a farla) di tutta l’angoscia di cui è strutturata la coscienza come autocoscienza, come pensiero che riflette sul suo esserci, che sono derivati i due modi con cui si cerca di tacitare la vera voce della ragione, rinnegando di fatto il ‘conosci te stesso’ come insostituibile fonte di conoscenza…

Ed erano i due modi che BX aveva già intravisto, ma che ora gli sembrava anche di essere in grado di spiegare. Meglio, di ‘giustificare’ nella loro negatività… insomma, di analizzare criticamente. E che, ad ogni buon conto, ritenne di dover riprendere e formulare in una nuova prospettiva, visti sotto una nuova luce.
Il primo modo – che è il ricorrente affidarsi ad altro dalla ragione per chiudere occhi e orecchie di fronte alle indicazioni che ne provengono – è il dare credito a quanto, essendo ‘contro’ di essa, si presenta in realtà (in realtà si vuole inconsciamente vedere) come contro le sue sconcertanti sentenze, per cui questo altro viene subito promosso a verità tanto più vera quanto più assurda. Quanto più incomprensibile per la ragione. Quanto più irrazionale. E verità che non può che avere sede e origine fuori di noi, anche se è in noi che ne riscontriamo la presenza…
E’ quindi in noi che ne riscontriamo la presenza, ma poi – secondo questo modo di vivere, di affrontare, il problema esistenziale – non dobbiamo mai ascoltare veramente noi stessi… o meglio, dobbiamo ascoltare noi stessi, ma per negare le indicazioni che ne provengono. Soprattutto quando queste indicazioni vanno tutte nel senso di trasmetterci un desiderio di fuga. Non è più la voce che si segue, ma il desiderio che essa provoca. Si ha paura di ciò che indica la voce, e si segue solo la paura…
Ma – aggiunse subito BX – magari si seguisse davvero, nel senso di esserne consapevoli, di averla sempre ben presente, la paura! In realtà, per tacitarla, per non ‘ascoltarla’, si cerca di tacitare la voce, quella della ragione, ritenendola responsabile della paura che provoca.
E così non si è in grado di udire altro da ciò che proviene dal nostro interno, da una coscienza che fa tutt’uno con la nostra esistenza come esseri senzienti e pensanti, ma per dare credito a questa voce, a causa dei risvolti inquietanti che inesorabilmente la caratterizzano, la si può ipotizzare originata da un ‘altrove’ di cui non ci riteniamo responsabili, a cui tutto si rimanda, sia la paura, l’angoscia, che la possibilità di superarla.

E questo – concluse provvisoriamente BX – è il circolo vizioso che sta alla base di ogni religione. E’ il circolo vizioso su cui si fonda ogni richiamo ad una trascendenza ‘oggettivata’, cioè a un desiderio di fuga da sé che si ritiene soddisfatto ipotizzando un luogo ‘altro da noi’ realmente esistente. E’ il circolo vizioso che sta alla base di ogni credenza in qualcosa che – comunque lo si configuri – viene ad assumere i caratteri della divinità.

Ma c’è anche un altro modo per non ascoltare veramente se stessi, solo apparentemente opposto. E’ quello di trasformare il circolo vizioso in circolo virtuoso. E’ il puntare tutto ad ascoltare della ragione solo ciò che la ragione stessa riesce a comprendere senza residui, cioè a ridarci pulito da ogni ombra, da ogni dubbio, da ogni inquietudine… vale a dire ascoltandola, ancora una volta, non per la totalità delle sue indicazioni, ma solo per quelle che possono essere utilizzate per esorcizzare una paura di vivere che il suo ascolto vero non può nascondere. E in questo secondo caso si carica la ragione di potenzialità che in realtà non possono che trascenderla, rigettandola in una dimensione che non è la sua.
Che non è la nostra.

Che è la stessa – giunse di nuovo a concludere, sempre provvisoriamente, BX – in cui la collocano le religioni, magari sostituendo Dio con Natura, ma dando alla natura lo stesso carattere di realtà trascendente attribuito alla divinità, facendola agire con le stesse funzioni. Si tratta cioè sempre di un richiamo ad una qualche trascendenza proprio quando si ritiene di negarla come esigenza, di negarla come via di fuga che è impossibile non desiderare di trovare nel proprio orizzonte. E che si trova, si vuole inconsciamente trovare, ‘divinizzando’ la ragione.

Conclusione quindi complessiva (anche se provvisoria) di BX: in entrambi i casi, sulla base dei limiti che la ragione dimostra di avere proprio quando viene usata come strumento di conoscenza, invece di vivere questi limiti sentendone tutta la cogenza – quella che certamente provoca l’esigenza di superarli – si ascolta solo questa esigenza e non ciò che la produce. E si ritengono i limiti superabili!
In realtà, non si fa che dare connotazione diversa ad uno stesso esorcismo: ad un fideismo (ad una ‘fede nell’altrove’) che toglie in ultima analisi ogni credito alla voce della ragione come voce nostra, come voce dell’uomo che parla all’uomo perché proviene dall’uomo per come si trova ad esistere come uomo, concedendolo tutto ad una qualche trascendenza di cui la nostra povera ragione può al massimo fare da cassa di risonanza…
fa da riscontro un credito (un bisogno di fiducia che la nostra precaria esistenza non cesserà mai di reclamare) da concedere per intero a questa voce della ragione, ascoltandola però con la stessa, identica pretesa di ricavarne quel tanto di conoscenza che dovrebbe farci mettere l’‘animo in pace’…
‘A posto con la coscienza’: un altro modo per dire la stessa cosa.
Ma…

Ma da dove proveniva questa sensazione di essere giunto a conclusioni tanto coerenti quanto per niente conclusive, da cui, contraddittoriamente, questo carattere di provvisorietà? Perché, in altre parole, sembrò a BX di avere percorso un tratto di strada considerevole nella direzione giusta (da cui la ferma intenzione di non tornare certamente indietro per quella stessa strada), ma nello stesso tempo di non essere giunto in alcun luogo in grado di lasciarlo veramente soddisfatto?
O, se non proprio soddisfatto, almeno – ecco il nuovo scoglio da affrontare – ‘a posto con la coscienza’…
Ma che differenza reale c’era?
In ogni caso, come poteva sentirsi a posto con la coscienza se aveva concluso che questo ‘ascoltare se stessi’ inteso come unico modo per approdare a qualche conoscenza degna di questo nome – per evitare che producesse solo false conoscenze, che desse risposte ingannevoli, puramente consolatorie – non poteva far altro che riproporre in continuazione la dimensione angosciante dell’esistenza? Perché l’ascoltare se stessi non permetteva mai di conseguire ciò cui più di ogni altra cosa ogni uomo, proprio in quanto dotato di coscienza, aspira, vale a dire di sentirsi ‘a posto con la coscienza’? Come potremo vivere in pace con noi stessi se dobbiamo conciliare due stati d’animo (ascoltare la coscienza e vivere in pace con essa) che invece si prospettano come assolutamente inconciliabili, in quanto l’uno esclude l’altro?
Se però così stanno le cose – cercò di tenere fermo il punto BX – bisogna accettare le cose come stanno, proprio per non farsi incantare da certe sirene…
Ma di ‘fermo’ – dovette ammettere – non c’era proprio niente. L’essere giunto a conclusioni soddisfacenti e insoddisfacenti nello stesso tempo (soddisfacenti, per così dire, razionalmente, e insoddisfacenti psicologicamente) poteva rendere bene l’idea della ambivalenza di ogni esistenza contrassegnata dalla presenza di una coscienza, ma solo ingannando se stessi, non essendo veramente sinceri con se stessi, si potevano accettare come definitive conclusioni così poco conclusive. Così contraddittorie. Così fondate su una sorta di sdoppiamento di sé del tutto gratuito, del tutto ‘innaturale’. Come poteva essere accettata senza riserve questa distinzione tra una soddisfazione razionale ed una insoddisfazione psicologica per altro sempre reversibili, sempre intercambiabili, invischiate cioè in un circolo vizioso che precludeva di fatto una vera distinzione?
Era veramente questo – si chiese BX – che stava volendo? Poteva veramente chiudere così la partita? Non era proprio questo stato d’animo ‘strutturalmente’ contraddittorio la condizione esistenziale che spinge con forza irresistibile a cercare consolazione nella esistenza di dio?
No, la questione andava riaperta, e andava riaperta ritornando in qualche modo al punto di partenza ma per intraprendere un altro percorso, ritornare cioè a quel ‘conosci te stesso’ considerato ora – proprio per saggiarne fino in fondo l’attendibilità come fonte di conoscenza – sotto l’aspetto dell’essere ‘sinceri con se stessi’. Anzi, semplicemente dell’essere sinceri.
La qual cosa per altro non era, anche se vista da una particolare angolazione, che l’eterna questione della verità.
‘Eterna’ quanto meno fin che l’uomo resta quell’animale pensante che non può non essere.

 

 

 

Quarto movimento.
Sincerità, conoscenza, verità. Da Socrate alla filosofia.

Perché – si chiese adesso BX ritrovandosi di nuovo alle prese con tutte quelle domande sconcertanti per le quali credeva di aver trovato, se non la risposta, il senso del loro porsi – cosa significa essere sinceri visto alla luce del rapporto tra sincerità e conoscenza?
E’ possibile proporre un ‘essere sinceri’ senza precisare che in realtà si intende essere sinceri con se stessi? Ma che rapporto intercorre tra questo essere sinceri con se stessi e ciò che la nostra esigenza conoscitiva chiama la verità? Detto in altre parole (consapevole di riprendere il tema della soggettività od oggettività delle nostre conoscenze, ma usufruendo ora di un’altra prospettiva, sfruttando un altro punto di vista, cercando di percorrere un’altra strada), basterebbe essere veramente sinceri per poter parlare di verità? Esiste un’altra verità oltre alla nostra? Che non si vorrebbe chiamare solo opinione, ma che noi, solo ognuno di noi, nessun altro che ognuno di noi, sente come verità?
Insomma, può esistere una verità oggettiva, nel senso che la riteniamo tale, senza sentirla come nostra, mentre solo così, solo sentendola come nostra, ci possiamo sentire sinceri? E il ‘conosci te stesso’, ha a che fare con la sincerità? E, in ogni caso, con quale sincerità?
E BX – seguendo il procedere dei propri pensieri e sforzandosi nel contempo di riuscire comunque a dominarli, di non farsi travolgere da un loro fluire già così appagante, così ‘vitale’, per se stesso – si trovò a dover fare i conti con la stessa domanda formulata in precedenza ma ora sotto questo ulteriore aspetto: è possibile, o meglio, che senso può avere una distinzione tra una sincerità razionale e una sincerità psicologica? Non è proprio questa distinzione che rende, se non impossibile, sommamente problematico, parlare di sincerità? E di verità!
E – ribadendo un po’ tutto quanto sotto forma di nuovi quesiti non eludibili – può esistere una verità che non si identifichi con una qualche forma di sincerità? Ma, per converso, può esistere una sincerità che non sia tutta autoreferenziale, cioè indistricabile da una storia privata che non sopporta rimozioni o censure, altrimenti come si potrebbe parlare di sincerità?…
Rieccolo, il tormentone (l’impasse, il circolo vizioso, o in qualsiasi altro modo lo si volesse chiamare) del dover ricorrere ad una storia personale tanto necessaria quanto inattendibile proprio come storia ‘personale’, quindi da scartare pur sapendola determinante!
A questo punto, cosa doveva fare BX? Rinunciare? Non servirsi più dell’aiuto della parola, del pensiero reso ‘visibile’, espresso, formulato, formalizzato in un linguaggio fruibile? No di certo, anche se la tentazione fu forte.
BX, pur tentato, non se la sentì di rinunciare: doveva ad ogni costo indagare se esistevano altre prospettive, se si poteva intraprendere un altro percorso, tentare un’altra strada… Ma quale? Non le aveva già tentate tutte?

Le aveva tentate tutte, almeno quelle che la sua stessa ricerca gli aveva fatto intravedere… però, forse una ne restava. E proprio quella che si era proposto di non percorrere ritenendola già di per se stessa senza sbocco, magari soggiacendo senza avvedersene ad un qualche pregiudizio. Quale? Non lo sapeva, ma non è proprio del pre-giudizio imporsi prima di, o comunque prescindendo da, ogni giudizio, fidandosi di una consapevolezza non sottoposta ad alcuna verifica, quindi solo pre-sunta?
Una strada – pregiudizio o meno che fosse ciò che gliela aveva fatta finora scartare – forse restava: intrecciata fatalmente con tutte le altre strade già percorse, ma forse con una sua autonomia che ancora non aveva considerato come tale. O meglio, coerente con l’esigenza di guardare comunque solo dentro se stesso, deciso ancora e sempre, e quindi anche ora, a dare la priorità assoluta a questa esigenza, forse si era troppo infatuato della propria coerenza…
che lo aveva portato sì a considerare il tema, irrinunciabile una volta intravisto, della sincerità, il quale però rischiava (o imponeva, come possibile pregiudizio?) di scartare con troppa disinvoltura, con un eccesso di supponenza, le indicazioni di chi aveva lasciato testimonianza di uno stesso percorso… magari tramandando, gettando le basi, costruendo le premesse per così dire culturali, di questa stessa esigenza.
La ‘storia personale’ – impossibile secondo BX da ripercorrere con strumenti che finirebbero sempre per ricostruirla ‘oltre se stessa’, in una dimensione che sfuggirà sempre ad ogni pretesa di recupero attraverso una memoria personale – non poteva – pensò ora BX – in qualche modo essere, se non recuperata integralmente, almeno dotata di una qualche visibilità da ricavare dalle indicazioni sparse qua e là nel tempo tramandato per noi a partire da qualcuno pur sempre come noi? Da qualcuno con le stesse nostre esigenze, e affrontate con lo stesso strumento di cui come uomini – anche se condizionati fatalmente dal tempo e dalle circostanze – tutti disponiamo?
Insomma, non era il caso di riascoltare, o meglio, di confrontarsi con chi, nel mondo cosiddetto occidentale, si tramanda abbia teorizzato il ‘conosci te stesso’, l’abbia preso come riferimento obbligato per ogni sua speculazione…
cioè con Socrate?

Quel Socrate che BX aveva avuto modo di conoscere un po’ più a fondo di quanto non comportasse la sua fama presso che planetaria, quando – impostogli da una necessità pratica (il ‘mestiere’ di insegnante) – aveva dovuto frequentare i libri dove si parlava di filosofia. Quel Socrate che magari era stato una sorta di interlocutore silenzioso, sempre presente, ma mai interpellato direttamente, delle sue riflessioni…
Ecco, sì, una possibile nuova strada c’era: riascoltare Socrate, ripartire da Socrate, per cercare di analizzare ciò che si tramanda avesse teorizzato Socrate, il primo che – si tramanda – nel mondo cosiddetto occidentale aveva esplicitamente affermato, e provato a dimostrare, che non si dà conoscenza vera di alcunché se non, appunto, guardando, cercando, in se stessi…
Ma in che modo ‘tornare a Socrate’, riascoltare Socrate? Come riannodare un dialogo con Socrate, confrontarsi con questa ‘voce’ proveniente da così lontano, senza imbattersi nel rischio di cui ora erano evidenti a BX le due facce pur essendo lo stesso rischio, cioè il rischio ‘psicologistico-storicistico’ (‘storicistico’, nel senso che ogni nostro comportamento è in gran parte, se non tutto, ingabbiato nella crosta costituita dalle interpretazioni dell’eco che ci giunge dal passato)?
Beh, nel merito una certezza (fonte, per altro – ma BX ritenne di doverne accettare consapevolmente la contraddizione – di altrettanta incertezza) l’aveva adesso acquisita: doveva tornare a Socrate nel solo modo con cui sentiva che ci si deve sempre rapportare ad una qualsiasi tradizione, lasciando cioè perdere, giudicandola questione irrisolvibile, l’attendibilità, nel senso di fedeltà all’originale, di questa tradizione, puntando invece a sondare ciò che lui aveva colto in essa. Che di essa aveva fatto suo. Che aveva utilizzato per sé. E in che modo tutto ciò poteva non tradursi in puro arbitrio, in pura autoreferenzialità? Perché, anche volendolo, non era possibile: che lo si voglia o no – si era già più volte detto, e adesso ripeté a se stesso – si è sempre eredi di una tradizione, nel senso che non si può non esserne condizionati, salvo non pretendere (in questo consistendo la vera arbitrarietà, il vero tradimento) di definire i caratteri di questo condizionamento, di fissarne le coordinate. Una contraddizione va vissuta (patita?) intanto come contraddizione, in quanto, presumendo di superarla senza viverla, si entra in contraddizione senza rendersene conto, senza confrontarsi veramente con ciò che ha prodotto la contraddizione…
Con Socrate, oltre tutto, si era in presenza di una tradizione già critica per conto suo, cioè già ‘per tradizione’ esitante di fronte anche solo alla identificazione di una biografia, ma soprattutto di un pensiero, minimamente plausibili dal punto di vista storiografico, trovandosi di fronte ad un personaggio tutto ‘indiretto’, al quale niente poteva essere attribuito direttamente, potendo Socrate anche essere, soprattutto come pensatore, un frutto a sua volta della ‘memoria’ (cioè comunque un’invenzione) di Platone…

Socrate, ad ogni modo.
Ma qual era ‘il Socrate di BX’? Rapportandone necessariamente il pensiero al proprio presente (o semplicemente al presente, che è sempre un presente ‘proprio’ nel più ambiguo dei modi – come ormai sapeva – ma pur sempre legittimamente anche proprio), ciò che più colpiva BX era il modo in cui Socrate aveva affrontato – che ne fosse consapevole o meno in questi termini – proprio il rischio psicologistico. Per liberare il ‘conosci te stesso’ da deformazioni psicologiche che forse anche lui aveva intuito pericolosamente inquinanti un ascolto per altro insostituibile, senza alternative proprio in termini di conoscenza possibile, l’aveva fatto pronunciare da un oracolo, l’aveva attribuito ad un dio. Ad un dio solare come Apollo…
Ma – si chiese BX – poteva bastare questo richiamo ad Apollo per far apparire solare, per fugare le ombre inquietanti e deformanti che un qualsiasi viaggio al proprio interno trascina sempre con sé? E’ sufficiente dire “guarda dentro di te, perché ciò che sta fuori in realtà non può che passare attraverso di te, e quindi è lì, solo lì, dentro di te, che lo puoi veramente afferrare” per rendere l’ascolto di sé la strada maestra verso la verità? Può, questo che in fondo è un indispensabile appello alla coscienza, ‘mettere la coscienza a posto’? Farci sentire ‘a posto con la coscienza’?
Fosse perché ormai era andato troppo oltre (oltre, cioè, anche a Socrate) con le proprie riflessioni, fosse perché al momento gli sembrasse del tutto inutile, del tutto accademico, un confronto con Socrate (ma non era la stessa cosa?), BX trovò una risposta sola. E categorica: no, non lo può! Per mille ragioni…
Perché ci si trova di fronte ad un vero e proprio turbinio di circoli viziosi, ad una tempesta con venti scatenati in tutte le direzioni, mentre il nucleo generatore di tanto sconvolgimento, l’occhio del ciclone, non può che essere costituito da lei, dalla coscienza. Il ‘sentirsi in pace con la quale’ è proprio perfettamente simboleggiato da quell’occhio del ciclone dove, apparentemente può regnare la calma più assoluta, mentre è in questa calma che si concentrano, convergono e si neutralizzano, ma solo temporaneamente, quindi illusoriamente, tutte le più violente perturbazioni. Pronte a scatenarsi – questo BX lo stava provando sulla propria pelle, e tanto più quanto più si stava sforzando di individuare un approdo finalmente affidabile – alla minima incrinatura di un equilibrio del tutto precario. Come precaria è sempre l’esistenza di ognuno.
Quindi identificare la sincerità con questa calma – concluse BX – è un enorme abbaglio. Non tener conto – come pare (per quel che ricordava, per quel che aveva ritenuto sempre dalle sue letture filosofiche) avesse affermato il pensatore Nietzsche – di cosa sta veramente dietro ad Apollo, significa illudersi che la sincerità abbia la sua sede privilegiata in una pienezza del sentire cui corrisponderebbe una pienezza del conoscere, mentre l’una e l’altra possono solo essere paraventi per nascondere la paura del caos.
Proprio quanto hanno sempre tentato di fare le varie religioni.
Proprio quanto tenta di fare una ‘voce della ragione’ ascoltata in preda ad un terrore che si vuole esorcizzare e che obbliga ad ascoltarla solo per ricavarne esorcismi.

E allora anche la tradizione – ciò che a BX non poteva che risultare dalla tradizione – cosa poteva riconoscere? Solo e sempre la stessa cosa: la precarietà di ogni conoscenza ricavata dal ‘conosci te stesso’. Tutte le strade verso la conoscenza non potevano che sfociare, meglio, impantanarsi, in un labirinto all’interno del quale si poteva solo girare a vuoto. Anche la tradizione indicava che il ‘conosci te stesso’ non potrà mai essere un viatico affidabile verso la conoscenza non potendo far altro che smentire se stesso proprio in termini di conoscenza, mentre, di fronte all’esigenza della sincerità, non fa altro che crearne l’illusione. Come può pretendere credibilità un ‘conosci te stesso’ che, messo davvero alla prova, se lo si volesse spogliare di tutte le ambiguità che reca con sé, finirebbe per rivelarsi come poco più di un patetico mistero? Il responso di un oracolo, appunto.
Eppure…

Eppure, proprio attraverso queste considerazioni, proprio per aver potuto fare queste considerazioni, BX si trovò a poter formulare una risposta che gli sembrò fargli fare un passo avanti decisivo, anche se non certo conclusivo, anche se recante ancora con sé quasi tutte le ambiguità che avrebbe voluto superare, nella direzione giusta.
Giusta perché promettente.
E promettente che cosa?
Di diventare una sorta di pista di lancio da cui intraprendere un sia pur breve viaggio, poco più di una puntata, nel cielo per lui complessivamente nebuloso della filosofia…
pur sempre ancora in gran parte nebuloso, ma nel quale adesso gli sembrò di poter intravedere uno spiraglio di luce da utilizzare per percorrere non alla cieca un tratto di strada che, proprio solo per il fatto di essere ‘non alla cieca’, andava nella direzione giusta.
E grazie, nonostante tutto, a Socrate.
Quel Socrate che gli aveva nonostante tutto permesso di ribadire – che lui, il Socrate storico, così lo intendesse o meno – come il ‘conosci te stesso’ fosse, certamente un povero, misero, incerto, quasi inutile, punto di partenza, ma un punto di partenza alla fine indispensabile perché l’unico rinvenibile. Sarà un punto di partenza – si disse BX – che da subito, già dopo il primissimo passo, fa intravedere una infinità di direzioni da seguire praticamente tutte intercambiabili in quanto tutte ugualmente incerte, confuse, in un susseguirsi di intersezioni che appaiono come tanti sentieri interrotti, tanti giri viziosi, non in grado di offrire anche un minimo di garanzia che qualcuna di queste direzioni possa essere quella giusta, quella da privilegiare…
insomma, esattamente ciò che gli stava capitando…
ma a questa scelta, a tentare questa scelta, non si può rinunciare, pena il condannarsi a perdere la propria umanità. Ad autoannullarsi come uomini.
Perché, cosa significa ‘essere uomini’? In cosa consiste quella umanità che non si deve perdere se non si vuole perdere se stessi?
Non consiste tanto nel giungere ad una qualche pienezza conoscitiva – concluse BX ribadendo tante sue convinzioni messe così insistentemente, testardamente, alla prova – in grado di pacificare il cuore (cui si può dare il nome di verità), o, rovescio della stessa medaglia, ad una serenità d’animo, ad un sentirsi in pace con se stessi, in grado di sciogliere i dubbi della mente (che può essere chiamata sincerità), ma nel mantenere costantemente viva la loro esigenza! ‘Conosci te stesso’ – che Socrate questo od altro intendesse – significa rendersi conto di quanta verità e di quanta sincerità abbiamo bisogno per vivere da uomini, e di come, perché il bisogno non si estingua, e con esso la nostra umanità, si debba respingere ogni falso appagamento.
Solo una cosa quindi si deve salvare, preservare, verificare continuamente che non si sia andata perdendo per strade considerate ‘maestre’, ma in realtà senza via d’uscita, senza sbocco, destinate a sfociare tutte, o nel pantano della melma da cui sembra essersi formata la nostra fisicità se solo da quel che sappiamo di essa volessimo ricavare una qualche verità, o tra i venti squassanti in cui viene sballottata senza sosta la nostra povera ragione: da salvare, da preservare, da custodire come quanto di più prezioso in termini di conoscenza si possa ricavare dal ‘conosci te stesso’, è l’esigenza della verità.
Ma come può un’esigenza non appagata, non soddisfatta, essere considerata un punto d’arrivo di una qualsiasi ricerca? Non si tratterà – si chiese ancora una volta, testardamente scrupoloso, BX – della solita razionalizzazione, dell’eterno riproporsi dell’eterna favola de ‘la volpe e l’uva’, insomma del solito ricorso al vecchio éscamotage del ‘sapere di non sapere’ (guarda caso, attribuito proprio a Socrate) per presumere di ‘sapere comunque’, per puntare sulla consapevolezza della propria ignoranza al fine di innalzarla a suprema forma di conoscenza, ingannando in modo funambolico se stessi?
Forse, ma cos’altro resta – si rispose in forma retorica BX – cui appigliarsi prima di lasciarsi trascinare nel baratro delle non-risposte, nel buio totale di una non-conoscenza così prossima allo stato di morte? Ché, solo con la morte, con la totale nullificazione di ogni forma di esistenza, può essere identificata e ‘vissuta’?
A cosa era dovuta la credibilità di questo approdo se non al suo essere un punto di partenza (il tentativo, sempre da coltivare, di rinascere) e non un punto d’arrivo che, per essere veramente tale, cioè un punto d’arrivo definitivo, che non contempla più alcuna ripartenza, non può che coincidere con la morte?
E cosa aveva espresso, manifestato, tenuta sempre viva, dando la possibilità a chiunque di esserne in qualche modo eredi, questa esigenza della verità? Ecco una possibile, provvisoria ma irrinunciabile, ‘quadratura del cerchio’: la filosofia!
E proprio in quanto alternativa a ciò che invece aveva sempre soffocato questa esigenza come esigenza pretendendo di averla soddisfatta: la religione!
E BX, per quanto consapevole di lasciarsi trascinare da un’enfasi eccessiva, se ne uscì con questa esclamazione tanto impegnativa quanto liberatoria:
- La filosofia è vita! La religione è morte! –
Tutto sembrò quadrare. La sua ‘ribellione’ a dio era stata sì un moto puramente biologico, vitale in quanto fisiologico, una affermazione di vitalità tutta implicita in una vicenda biologica, ma tutto si sarebbe pur sempre risolto nel prevalere dell’epilogo che ogni vicenda biologica fatalmente reca con sé (cioè in quel prevalere della morte che solo il prospettare una vita oltre la morte può mitigare per l’angoscia che produce) se la ribellione non fosse stata accompagnata, sorretta, da un ricorso ad una ‘voce della ragione’ tanto più vitale quanto più in grado di riflettere sulla vita. Sul destino di ogni esistenza. Solo tenendo viva l’esigenza di riflettere su questo, si vive.
E questo aveva fatto, tentato di fare, la filosofia.
Questo aveva sempre soffocato, tentato di soffocare, la religione.
La filosofia aveva sempre rappresentato la condizione di una umanità veramente umana.
La religione aveva sempre rappresentato la condizione di una umanità disumana. O – per usare l’espressione di un pensatore che a BX sembrò intendesse, nonostante la possibile lettura in senso contrario, sostenere lo stesso concetto – ‘troppo umana’.

La filosofia, dunque.
Ma cosa aveva a che fare lui, BX, con la filosofia? Meglio, con la cultura filosofica? O, meglio ancora, con il sapere filosofico?
Con la cultura filosofica, intesa come quanto aveva costituito, e continuava a costituire, una elaborazione di sapere basata su un certo tipo di riflessione continuamente autoriproducentesi – su un sapere cioè costruito su se stesso per continui autorimandi, dotatosi di un linguaggio via via sempre più specialistico, per veri e propri iniziati – in realtà gli era sempre sembrato di aver avuto a che fare ben poco. Per quel tanto che aveva dovuto praticare un sapere codificato come filosofico al fine di trasmetterlo come richiesto dalla istituzione scolastica, la filosofia era sempre stata vissuta da lui come una sorta di enorme, complicata, ma artificiosa costruzione, un rutilante monumento dalle infinite sfaccettature in grado di sorprendere allo stesso tempo sia per l’audacia delle soluzioni architettoniche che per la compattezza, dovuta al continuo autorichiamarsi, del tutto, ma anche, proprio per questo, in grado solo di intimidirlo e di farglielo sentire sostanzialmente estraneo. Aveva, in altre parole, provato per la filosofia, la stessa avversione che aveva sempre provato per la matematica: un edificio, quello costituito dalla matematica, tanto straordinario quanto impossibile – almeno per lui – da abitare con un minimo di agio, con la sensazione di sentirsi anche solo un poco a casa propria. E lo stesso discorso – ritenne di dover integrare – valeva per la religione: un mastodontico, monumentale edificio nel quale non riusciva mai ad entrare come quando si entra in casa propria.
Ma, proprio come per la matematica e per la religione, in realtà la sua avversione per la filosofia non era mai stata totale, perché ciò che sentiva come estraneo era l’edificio in sé, il modo con cui era stato eretto, non certo l’esigenza che aveva portato alla sua costruzione, né il materiale usato per erigerlo…
E adesso, proprio alla luce delle ultime riflessioni – e anche (o forse soprattutto, come gli venne all’improvviso da considerare) per aver potuto seguire le lezioni, anzi, la lezione, di un pensatore (ufficialmente un filosofo, ma tale prima di tutto perché pensatore) in grado di aprirgli, perché già da lui non solo teorizzata, ma praticata, questa prospettiva – credette di avere capito il perché, o meglio, di avere intravisto come poteva superare l’avversione: si trattava di rifare il percorso inverso rispetto a quello che aveva permesso di innalzare quell’edificio tanto straordinario quanto difficile (per lui quasi impossibile) da abitare, non in grado di essere da lui veramente utilizzato… Si trattava, in buona sostanza, di ripartire dai fondamenti, dalle fondamenta, ma fondamenti-fondamenta da gettare ex-novo, sia pure con i materiali rinvenibili, i materiali già esistenti, senza il timore di fare della pura archeologia, di trovarsi cioè a rinvenire soltanto tracce tanto oggettive quanto indecifrabili, e quelle a dover utilizzare. Si trattava, in altre parole, di rintracciare il materiale originario su cui e con cui era stato costruito tutto l’edificio per utilizzare questo materiale al fine di innalzare il proprio edificio, quello prospettato, e progettato, dalla propria esigenza. E che i temi trattati dalla filosofia costituissero per lui un’esigenza, era fuori di dubbio. Come è esigenza di ogni animale pensante. Cioè di ogni uomo. Di ogni uomo che guarda, cerca, nell’unico posto da cui può trarre le indicazioni decisive circa la propria esistenza, cioè in se stesso. Ascoltando, prima di tutto e dopo tutto, se stesso…
Ciò che BX si era proposto di fare, e di cui stava ora raccogliendo i frutti! Che non potevano che essere quelli ricavati da un lavoro personale che nessuno poteva surrogare nel suo dover essere ‘personale’, con tutti i problemi (i rischi: di cui BX si sentiva – sia pure entro i limiti che sono propri di ogni consapevolezza – consapevole) che ciò comporta perché non può che essere esplicato con i modi e i mezzi rintracciabili nel tempo e nello spazio in cui tutti si conduce una propria esistenza sicuramente non scelta proprio nelle coordinate spazio-temporali. Geografiche e storiche.
Ora, il dover recuperare la filosofia come esigenza della filosofia, a BX sembrò possibile solo ponendosi in un atteggiamento, come dire, pre-filosofico, cioè ascoltando sempre prima di tutto, prima di farsi condizionare da una qualsiasi elaborazione filosofica (da una qualsiasi filosofia intesa come sistema filosofico compiuto, come pensiero codificato, o anche solo codificato come metodologia da seguire), l’esigenza che aveva portato alla elaborazione.
Per non farsene schiacciare, cioè condizionare ben oltre l’esigenza che aveva richiesto l’elaborazione..
Per sentirsi libero come pensatore.
Per essere libero pensatore.



Quinto movimento.
Come si è (come si dovrebbe essere) ‘filosoficamente’ atei.


Se si considera il pensiero – iniziò così ad ‘elaborare in proprio’ BX – non un’entità a se stante, vivente di vita propria (cioè, per dirlo con un classico del pensiero occidentale, non una res cogitans), ma il prodotto di una attività che può essere esercitata solo da un essere pensante, il quale a sua volta non può che essere un uomo, e un uomo in carne ed ossa che vive (fin che vive) anche – e per ciò che riguarda il ‘come’ di questo vivere, soprattutto – perché pensa, un pensiero ateo si può fondare con tutti i crismi della legittimità. Legittimità, che non significherà verità assoluta, ma che significa, se si considera la condizione umana, molto di più: perché è un pensiero, può essere un pensiero, che si muove liberamente entro i limiti propri della condizione umana, mentre ogni pretesa di verità assoluta, se non la si considera per ciò che veramente è, cioè una esigenza connaturata alla condizione umana, è solo una fuga da questi limiti che in tal modo finirà per soffocare (i limiti da cui ci si illude di poter evadere finiranno per soffocare) ogni libero pensiero.
Come si può fondare, allora, un pensiero ateo, cioè un pensiero (inteso come attività speculativa formalizzata) caratterizzato soprattutto – per essere considerato espressione di una umanità integrale, non in fuga dai propri limiti conoscitivi pur soffrendoli come limiti – dal suo essere un pensiero filosofico invece che religioso? BX diede questa risposta: solo basandolo, solo considerandolo basato, su un sentire (inteso come un pensare che sembra integralmente determinato, del tutto compatto con una dimensione fisica da cui non lo separa alcun filtro: cioè, sempre per dirlo con i classici della filosofia, ‘un prodotto dei sensi’) ateo.
Perché?
Perché – ne era ormai convinto – si può sempre indagare (come è stato fatto e si continua necessariamente a fare) sul rapporto che intercorre (che ‘sembra’, che ‘potrebbe’, che ‘dovrebbe’, ecc… intercorrere) tra il ‘sentire’ e il ‘pensare’, intesi l’uno come pensiero condizionato (non libero, deterministicamente obbligato) e l’altro come pensiero condizionante (libero, autodeterminato)… si può sempre, in altre parole, indagare per capire se tra i due intercorre un rapporto causale, oppure se c’è identità, o invece contrapposizione… indagare infine per capire, e stabilire, quale sia, eventualmente, il pensiero più autentico, il pensiero più affidabile…
ma tutto ciò che se ne potrà ricavare (che se ne è ricavato) sarà, nella migliore delle ipotesi, la descrizione di una reciprocità che si rivelerà tanto più difficile da definire come tale quanto più si riuscirà (quanto più si è riusciti) a metterne in evidenza sempre ulteriori aspetti, ulteriori dinamiche, ulteriori ‘rimandi’, in quanto in realtà ci si trova a scandagliare un pozzo senza fondo, per cui ci si troverà sempre di fronte ad un circolo vizioso destinato a riprodursi all’infinito. In altre parole, per questa indagine tutto non potrà (e dovrà) che essere demandato ad un cognitivismo (inteso come studio dei processi cognitivi il più possibile verificati sperimentalmente, cioè condotto scientificamente) assolutamente indispensabile per individuare dinamiche utili e necessarie da un punto di vista pratico, soprattutto terapeutico, ma non si potrà mai verificare niente di diverso dalla imprescindibilità – ma quindi anche indistinzione – di questo legame.
Imprescindibilità – non ebbe difficoltà a riconoscere BX – che non è certamente sufficiente per fondare un pensiero ateo come pensiero unico, come verità senza alternative (assoluta, appunto), ma che – ribadì con piena convinzione – garantirà sempre circa la legittimità (questa sì assoluta, ma in quanto in assoluto non contestabile) del fondare un ‘pensiero su un sentire’ come un ‘sentire su un pensiero’. Sono, non possono che essere – il pensare e il sentire – le due facce di una stessa medaglia: identificabile solo apparentemente, anche se necessariamente, per avere una faccia distinta dall’altra, ma pur sempre una stessa medaglia.

E cosa sente (pensa) un ateo? In altre parole, come si forma, su cosa è fondato, un pensiero ateo? BX si disse che può cominciare a prendere consistenza, intanto, quando si pone ascolto a quella dimensione fisica con cui ogni uomo può fare esperienza della propria esistenza. Può poi cominciare a strutturarsi, a dare una prima forma a questa consistenza, quando ci si sofferma a constatare il percorso (il destino, la sorte, la parabola, il ciclo strutturale, ecc.) di questa realtà fisica in quanto, appunto, condizione ineliminabile per l’esperibilità da parte di ognuno della propria esistenza: se non sola causa, comunque condizione ineliminabile.
E di che percorso si tratta?
La risposta – non trovò alternative BX – sembra proprio obbligata: si tratta di un percorso che va, dal formarsi di un organismo vivente come aggregazione particolare (quella particolarità che rende l’organismo, appunto, tale in quanto vivente, e, via via, per quel che concerne l’uomo, senziente e pensante) di materia, alla sua dissoluzione come disgregazione di materia…
Ma è proprio – continuò BX – di fronte a questa constatazione, a questa risposta obbligata, che in quell’animale senziente e pensante che è l’uomo, almeno da quando, ontogeneticamente e filogeneticamente, l’organismo è diventato senziente e pensante (da quando cioè è comparsa nell’uomo, inteso come umanità e come singolo uomo, una coscienza) si fa strada la domanda provocata dal pensiero forse più frequentato (ma, forse proprio per questo, spesso il più cacciato nel profondo, cioè lasciato agire indisturbato, fuori controllo), e cioè: “E’ in questo arco di tempo, durante il quale ognuno può constatare, verificare, giungere alla consapevolezza e con essa convivere, della propria esistenza, che si esaurisce completamente la nostra esistenza, oppure la nostra esistenza può in qualche modo proseguire, dilatarsi oltre questi limiti?” Questa è la domanda cruciale, quali che siano il modo e la circostanza con cui e in cui viene posta, quale che sia soprattutto il livello di consapevolezza con cui ci si trova ad affrontarla, l’importanza che gli viene attribuita, perché è la domanda da cui può derivare una risposta atea o non atea, condizionate, l’una e l’altra, proprio dal livello di consapevolezza con cui essa emerge, entro cui prende forma e si fa strada.
Ora, è incontestabile che prima del formarsi di quell’aggregato di materia che ha dato forma al nostro organismo, nessuno di noi sapeva, non avendone avuto alcuna esperienza, di esistere… e anche accettando – aggiunse scrupolosamente BX – per puro amor di ipotesi una qualche teoria della reincarnazione, di una nostra personale esistenza precedente potremmo eventualmente fare l’esperienza solo in quanto esistiamo nel presente. Ma del dopo quale esperienza possiamo avere? Nessuna, ovviamente. Potremmo sapere di una nostra eventuale sopravvivenza al disgregarsi della materia di cui siamo costituiti solo, appunto, ‘dopo’ tale disgregazione…
Bene, la tradizionale risposta atea – richiamò a questo punto a se stesso BX – è quella che, in linea di massima, ritiene non si possa più parlare di esistenza personale da nessun punto di vista dopo la disgregazione del corpo… ma – aggiunse subito – questo non basta: se questa risposta vuole davvero costituire la base per il formarsi di un pensiero autenticamente ateo, non può che basarsi a sua volta su un sentire-pensare già, per così dire, ateo, altrimenti come pensiero ateo sarà sempre destinato a farsi condizionare da un pensiero che invece pretende di esistere come entità autonoma, come pura ‘sostanza pensante’. Se, in altre parole, alla base di un pensiero ateo non ci fosse già un sentire-pensare ateo, si vedrebbe (si è visto) questo pensiero perdere per strada, nel suo articolarsi, la propria fisionomia. Come sembrò a BX di potere sempre verificare, di potere sempre ‘documentare’… anzi, intravedendo in questo un suo possibile impegno futuro…
Ma intanto occorreva precisare con la maggiore chiarezza possibile (con la maggiore sincerità, onestà, consapevolezza critica, ecc. possibili… insomma, con tutto quanto era emerso come indispensabile per tener viva l’esigenza di verità come esigenza) in cosa consiste un sentire-pensare ateo.
L’ateo – elaborò BX – può anche pensare, anzi in un certo senso deve, in linea di principio, pensare che, non potendo mai avere alcuna esperienza, nell’arco della sua esistenza biologica, di ciò che ne sarà della sua esistenza dopo il disgregarsi di tale organismo, sia legittimo ipotizzare una qualche forma di sopravvivenza (esattamente come è legittimo ipotizzare il contrario), ma questo pensiero non lo esime in alcun modo, non lo obbliga ad esimersi in alcun modo, dall’estendere il suo assenso ad un’esperienza che, non contemplando alcuna presenza di una qualsiasi forma di consapevolezza possibile prima del formarsi dell’organismo (in realtà, una non-esperienza, meglio, un nulla d’esperienza), è destinata a riproporsi, a ripresentarsi, per così dire, dopo la disgregazione dell’organismo. In altre parole, l’esperienza (detto impropriamente) inequivocabile, ineliminabile, di non avere avuto alcuna esperienza prima del costituirsi, secondo modi e tempi rigorosamente biologici (magari modificabili come modi e tempi dalla cultura in senso lato, o, in senso più diretto, da una qualche ‘bioingegneria’, ma sempre intervenendo su dati e meccanismi biologici), del corpo come organismo vivente, autorizza senz’altro l’ateo a pensare che la dissoluzione di questo organismo sia la dissoluzione della vita, e con essa della coscienza, e con essa di qualsiasi forma di esperienza consapevole, di esistenza come essere senziente e pensante. Insomma, di esistenza come uomo.
Sulla base di che cosa questa ‘autorizzazione’?
BX ritenne qui di poter mettere a frutto – di poter utilizzare in una sintesi tanto più legittima quanto più risultato di tutte le analisi che era stato in grado di condurre dentro e fuori di sé – la strada percorsa: dalla ribellione al ruolo della memoria nella ribellione; dall’ascolto della ‘voce della ragione’ al ‘conosci te stesso’ e alla conoscenza che ne può derivare; dalla questione della verità a quella della sincerità; infine all’approdo, al suo tipo di approdo, alla filosofia. Ad autorizzare l’assenso – si disse BX – sta il fatto che, se ascolto il mio corpo, lo sento (ma lo ‘sento’ perché anche lo penso, mi ‘fermo’ cioè ad ascoltarlo con atto consapevole, altrimenti non potrei dire a me stesso di sentire alcunché, e lo sento quindi con tutto me stesso, in tutte, e con tutte, le componenti di me di cui ho coscienza, compreso il pensiero) come qualcosa che precede, e quindi fonda, ogni considerazione che riguarda tutti gli aspetti della mia esistenza, la qual cosa mi ‘obbliga’ quanto meno a tener conto di una indicazione come questa: posso anche non ascoltarlo il mio corpo, ma, pur potendolo fare, vivrei questa scelta – io, BX, vivo di fatto questa scelta – come un rifiuto di pensare-sentire la vita stessa. Di fuggire dalla vita perché la sento-penso come condizione di tutto destinata a tradursi in nullificazione di tutto una volta che il mio corpo cesserà di operare come organismo senziente-pensante. Come essere animato senziente-pensante, sento il mio corpo come causa di tutto ciò che sento e/ma, proprio per questo, non posso anche non pensarlo, non averne coscienza, come di qualcosa che si esaurisce (si realizza, ma realizzandosi si esaurisce) tutto all’interno di una parabola biologica. Quali che siano le mie possibilità di condizionare questa vicenda biologica, anzi – si sentì di generalizzare legittimamente BX – quali che siano le possibilità dell’uomo di allungare, accorciare, rendere piacevoli, rendere sofferti, i modi e i tempi di questa vicenda, tutto si risolve all’interno di una parabola, di un ciclo inesorabile nel suo aprirsi e chiudersi come inizio e fine di tutto…
Se così non sarà, non potrò mai saperlo… Certamente posso sperarlo, desiderarlo, ma – concluse questa riflessione BX – non sarei ‘sincero con me stesso’ se, il dare credito a questo desiderio, reale come desiderio, mi portasse a negare la realtà di ciò che sento-penso, la qual cosa è proprio ciò che invece accade in una prospettiva di pensiero teista (il teismo inteso da lui come l’alternativa all’ateismo), o di pensiero falsamente, perché solo apparentemente, ateo. Come, con riferimento a questa seconda ipotesi, accade con un pensiero che si è convenuto di chiamare materialista, ma che, se non è basato sull’assenso convinto – e convinto perché meditato e continuamente verificato – dato alla eventualità che prima della nascita e dopo la morte del corpo non esista alcuna possibilità di fare esperienza di alcunché e quindi per l’individuo non esista alcuna possibilità di conoscere alcunché, e quindi non esista alcunché se non come prodotto di un pensiero che si autoproclama esistente di vita propria, di vita ‘altra’, di natura ‘altra’, rispetto alla natura e al ‘destino’ del corpo… un pensiero non basato su questo, sarà tante cose, ma non un pensiero ateo…
E ancora qui si aprirono davanti a BX prospettive di ricerca futura, di impegno futuro…

Ma adesso bisognava proseguire per la strada intrapresa; in particolare occorreva trarre le prime fondamentali conseguenze da quanto aveva provato a chiarire. A chiarirsi.
Un pensiero allora, quello ateo – continuò BX – che per dirsi veramente ateo (a-teo, cioè senza dio, basato quindi certamente sulla negazione dell’esistenza di dio, ma da vivere, questa negazione non tanto come mancanza, come assenza, quanto come liberazione da un vincolo inutile, in quanto inutilmente aggiunto ai vincoli che già caratterizzano la condizione umana) considererà, dovrà considerare, ogni riferimento a qualcosa o a qualcuno che dovrebbe esistere in questa dimensione ‘altra’ rispetto a ciò che è esperibile dal corpo in relazione al suo destino (quella dimensione ‘altra’ che si è convenuto di chiamare trascendente, e che per BX significava al di là di ogni possibile riferimento che non sia pura espressione di esigenza) come del tutto arbitrario. O meglio, arbitraria non era certo l’esigenza, costitutiva anzi della condizione umana, mentre arbitrario era ritenere di poter trarre da questa esigenza indicazioni ‘positive’, cioè significati (sensi, intesi come direzioni, tracce, falsarighe da seguire) già in qualche modo esistenti da qualche parte perché già da qualcosa o da qualcuno, e da sempre, ‘creati’. Sarebbero, questi significati così intesi, non la risposta ad un’esigenza, ma – come ormai era convinto BX – il suo soffocamento, una vera e propria fuga da sé alla ricerca, e al preteso rinvenimento, di un luogo (la trascendenza) da cui ricavare tutto il necessario per ‘dare un senso’ a ciò che altrimenti non sembra averne alcuno; poi, una volta che ci si è illusi di aver trovato questo senso, questa direzione chiaramente delineata e tracciata, questa falsariga da seguire, seguirla senza più chiedersi da dove in realtà la si sia fatta scaturire. Insomma, la forma più radicale, più completa – senza margini di recupero se non alla condizione di ripartire integralmente da zero – di fuga da sé, di alienazione di sé.
Ateo – provò quindi a tirare alcune prime conclusioni BX – più che indicare la negazione dell’esistenza di qualcosa che ha preceduto, e quindi fondato, la esistenza di ogni cosa, e quindi anche dell’uomo per quello che è al di là di come è costretto da questo qualcosa a rappresentare sé e il mondo (negazione ovviamente impossibile), indica la impossibilità da parte dell’uomo di fare una qualsiasi esperienza di questo ‘qualcosa’ al di là di sentirne l’esigenza… e quindi ‘ateo’ significa lanecessità di ‘costruire’ la propria esistenza ‘libero’ da questo legame (a-teo) che, non potendo mai conoscere nella sua vera natura, non potrà mai sciogliere. Soprattutto non dovrà mai ritenere che Qualcosa o Qualcuno possa scioglierlo per lui: in questo consistendo la massima alienazione di sé, la massima rinuncia alla propria umanità.
E, da questo punto di vista, un pensiero ateo quindi non è, non può essere confuso, con un pensiero cosiddetto agnostico, almeno se per pensiero agnostico si intende un sorta di sospensione di giudizio dovuta ad una ignoranza considerata però sempre passibile di essere superata, essendo sempre disponibile – il pensiero agnostico inteso in questo modo – a recepire, considerando ciò possibile, una ‘illuminazione’ che squarci il mistero negandola come ignoranza: questo significherebbe arrestare il processo di formazione di un pensiero ateo alla fase che precede l’assenso, dando consistenza ad un atteggiamento, assolutamente legittimo, ma del tutto in balia di un pensiero pur sempre caratterizzato da pura autereferenzialità.

Quali allora le conseguenze ‘pratiche’ – cioè in grado di condizionare i propri comportamenti intesi come atteggiamento da assumere sia di fronte ai problemi posti dalla dimensione spazio-temporale in cui si vive, sia soprattutto (in quanto aspetto strutturale, inscindibile da tale dimensione) nei confronti dei propri simili, degli altri uomini – del pensiero ateo? In particolare – si chiese BX – come deve essere impostata e risolta la questione del rapporto che un pensiero ateo deve intrattenere con il pensiero teista in tutte le sue espressioni, cioè con tutta una tradizione di pensiero che ha le sue radici (profonde, quanto profonda è l’esigenza della condizione umana di uscire dai propri limiti) in un pensiero magico-religioso da cui il pensiero ateo storicamente deriva nel senso che intende porsene in alternativa, che intende superarlo?
Intanto – fu la risposta – non perdendo mai di vista, non perdendo mai la consapevolezza, che questo pensiero magico-religioso costituisce, sì l’eredità che non si intende più accettare, ma di cui si è, appunto, pur sempre eredi! Non tener conto di questo sarebbe compromettere già da subito, non tanto la legittimità della rivendicazione di una autonomia, di una emancipazione come diritto dell’uomo inteso come animale pensante, quanto la possibilità pratica, storica, di questa emancipazione…
(e di nuovo, a questo punto, BX credette di intravedere il terreno su cui coltivare un suo impegno futuro…)
ma nello stesso tempo il pensiero ateo deve con radicale determinazione impegnarsi nel rivendicare un proprio ruolo culturale conseguibile solo con uno sforzo continuo di definizione (cioè continua ridefinizione e quindi sempre ulteriore precisazione) della propria identità in modo da eliminare, per quanto possibile, ogni equivoco da un confronto col pensiero teista che solo puntando sulla chiarezza delle rispettive posizioni può rendere possibile non trasformare il confronto (mettendo in evidenza quanto sarebbe inutile, per non dire dannoso, pericoloso, per tutti) in uno scontro…

Scontro assolutamente da evitare, perché un altro aspetto, che BX sentì come tutt’altro che secondario, del ‘sentire-pensare’ ateo (su cui deve fondarsi un pensiero ateo) consiste nel vedere nella lotta – quando non sia un impegno per conservare e promuovere l’esistenza di ogni singolo uomo ritenendo che non ci sia altro, inteso come altra fonte di esperienza, per nessun uomo, al di là della sua vita biologicamente intesa – solo un cedimento ad un impulso, che magari sembra vitale, ma che in realtà è messo al servizio di un desiderio inconscio di sopravvivenza oltre la morte che porta a sfidare la morte. Cioè a mettere la vita al servizio della morte. Anzi – trasse da tutto questo una conclusione che capì subito di dover riconsiderare, ma che intanto doveva assolutamente formulare, ‘asserire’ – un pensiero ateo deve diffidare dello stesso termine ‘lotta’, che sta a sottintendere quasi sempre un uomo finalizzato a strumento per far prevalere un qualsiasi disegno astratto (frutto di un pensiero disancorato dalla sua unica fonte, cioè l’uomo in carne ed ossa) da perseguire contro altri uomini. Meno che mai, in ogni caso, la lotta deve servire per convincere alcuno a riconoscersi in un pensiero ateo, se questo spingesse a sentirsi legittimati – quando proprio non si può fare a meno di usare il termine – a ‘lottare contro’ invece che a ‘lottare per’, altri uomini. Da considerare, sempre e comunque, altri se stessi…

Ma perché tutto ciò potesse trovare un fondamento in grado di tradurlo in reale, concreta, prospettiva storica, BX trovò indispensabile riprendere ancora una volta – utilizzando ora, per questa nuova rimessa a fuoco, il ‘materiale’ sparso nel tempo e nello spazio dalla filosofia – la questione della conoscenza: per delimitare subito, e con la maggior chiarezza di cui era capace, i margini di un percorso che un pensiero ateo non può non seguire se vuole veramente porsi al servizio, certamente di chi lo adotta e lo esercita, ma non solo.



 

Sesto movimento.
Conoscenza, vita, meta-conoscenza: prendendo le mosse da Schopenhauer.


Fu così che BX, indagando, frugando, fra i materiali offerti dalla storia del pensiero filosofico per rinvenire quali più di altri potessero servirgli per gettare le fondamenta di una casa nella quale poter abitare col maggior agio possibile – e non da solo, ma con i propri simili – ritenne di identificarne alcuni da utilizzare più di altri. Due in particolare: si trattava di quelle specie di architravi che avrebbero dovuto reggere e compattare gli edifici innalzati da due pensatori (di cui per altro, come per il resto della compagnia filosofica, BX non si riteneva certo un esperto conoscitore), e cioè il Cogito, ergo sum” di Cartesio e “Il mondo è la mia rappresentazione” di Schopenhauer. Ma, mentre per quanto riguarda il primo (‘penso, quindi sono’, cioè sono ciò che la mia coscienza, la mia facoltà di pensare, mi dice di essere) ritenne di essersene – in analogia con quanto gli era accaduto con il ‘conosci te stesso’ socratico – già ampiamente servito, magari rendendosene conto solo a-posteriori… il secondo (‘Il mondo è la mia rappresentazione’) gli apparve come ancora tutto da sfruttare, alla luce soprattutto di alcune illustrazioni che di questo principio aveva dato lo stesso Schopenhauer. Soprattutto questa:L’io è l’occhio che tutto vede e da nessuno è visto. Che tutto conosce e da nessuno è conosciuto”, aforisma che BX ritenne perfettamente in grado a sua volta di illustrare quel circolo vizioso nel quale, ogni volta che vi rifletteva, gli sembrava fosse costretta a muoversi la vita della coscienza. ‘Specchio specchiato’ della vita stessa.
E si accinse a trattare il tema della conoscenza ‘usando’ – con qualche timore reverenziale, ma sentendosi legittimato dalla strada che aveva percorso per giungere fin dove era giunto – gran parte del materiale che gli sembrava avesse usato il filosofo tedesco.

Dunque, la conoscenza.
Proviamo a guardare – si propose BX – la cosiddetta realtà (il mondo, interiore ed esteriore) con l’intento di conoscerla per valutarla, per interpretarla, chiedendoci nello stesso tempo il perché di tale progetto. Quale risposta è possibile dare? Una fra le tante sembra imporsi, perché sembra proprio essere la prima e l’ultima delle risposte possibili, la più ovvia e la più imperscrutabile, cioè quella conclusiva, che le racchiude tutte nella sua circolarità dinamica: lo vuole la vita, è un progetto suo, iscritto in una vicenda biologica che vede l’uomo animale dotato di coscienza…
Ma se prescindiamo per il momento – volle sperimentare BX ritenendolo significativo, anche senza avere ben chiaro sul momento di che cosa – da tale considerazione e ci soffermiamo a descrivere cosa è dato di ‘vedere’ in prima istanza come percezione di dati utilizzabili dal progetto, cosa ‘registriamo’? In altre parole, cosa ci ‘rappresentiamo’? Per procedere evitando il più possibile risposte troppo facili, per sgomberare bene la strada in modo da liberarsi cioè una volta per tutte da una pericolosa illusione, BX ribadì a questo punto un concetto riproponendolo sotto forma di domanda retorica: potremo mai risalire alla origine vera di questa rappresentazione ricorrendo allo studio della anatomia e della fisiologia di questo occhio costituito dall’io, dal soggetto cosciente nel suo modo di essere cosciente? No, per questo valeva la risposta che, anche se in altro contesto, aveva già data: tale studio si renderà certamente necessario per ragioni, per così dire, ‘terapeutiche’, cioè per cercare – attraverso la conoscenza e la descrizione di certi meccanismi che sono propri di questo occhio relativi alla sua natura comunque fisica – di mantenerlo nei limiti del possibile operante nelle migliori condizioni, ma nessuno studio sarà mai in grado di porre veramente questo ‘occhio’ nella condizione di dirci, cioè di farci conoscere, non solo perché ci fa vedere ciò che ci fa vedere, ma in realtà nemmeno come, dal momento che ci si dovrà sempre rimettere al ‘risultato’ del suo operare, a ciò che di fatto ci fa vedere. A ciò che lui (l’io) impone che vediamo. A ciò che noi (l’io) vediamo attraverso di lui.
Ma – riandò al suo proposito BX – ancora dopo aver ribadito questo, cosa vediamo?
Rimettendoci alla pura percezione di ciò che accade ‘fuori’, ma soprattutto di ciò che accade ‘dentro’ – cioè nel luogo dove viene elaborato e ‘formalizzato per noi’ quanto giunge da fuori e da dentro – ci troviamo (a BX sembrò che non ci si potesse altro che trovare) di fronte ad un turbinio di proposte dove niente è affidabile, cioè rinvenibile a comando sempre con la stessa identità, perché niente è fermo, niente è stabile, niente è duraturo. E perché?
Perché – ritenne subito di poter spiegare – ogni rappresentazione del mondo è integralmente il prodotto di una attività, di un movimento, che non possono che essere una attività e un movimento continui, incessanti, come non può che essere tutto ciò che è proprio della vita, pena il suo negarsi come vita qualora il movimento si arrestasse. Qualora la parabola biologica concludesse la sua traiettoria.
E però…
Però – riflettè BX sulla scorta di ciò che riteneva avesse teorizzato a suo tempo proprio Schopenhauer – questo movimento, che è sempre contemporaneamente una manifestazione della vita in atto e un correre, un ‘agitarsi’, che inesorabilmente porterà al suo dissolvimento, al suo arresto definitivo – se si vuole che permetta al nostro/suo occhio di ‘vedere’ comunque qualcosa, di dar vita a scenari identificabili perché in qualche modo definibili, esperibili secondo le esigenze conoscitive dell’io – deve in una certa misura essere bloccato, arrestato. ‘Ucciso’, per così dire…
E questo – continuò – è proprio ciò che fa la speculazione, il pensiero. Il pensiero, la speculazione, intesi come il voler rendersi conto e il chiedersi il come e il perché di ciò che ci accade intorno e dentro – che pure fa parte, è un carattere specifico di quell’aggregato di materia in movimento che costituisce la peculiarità dell’organismo umano e di cui l’occhio (la coscienza, l’io, o comunque si voglia chiamare la facoltà di pensare) è una componente – per poter esercitare la loro funzione, devono, sia pure dall’interno della vita, sia pure come sua manifestazione, in qualche modo arrestarla, o meglio, rappresentarsene l’arresto. Quasi operare una falsificazione all’interno di ciò che per altro, in quanto rappresentazione, si presenta già di per sé come illusorio. Non si sfugge a questa che potrebbe anche essere vista – che da Schopenhauer, per quanto BX aveva di lui ritenuto, certamente era vista – come una condanna: per avere di fronte uno scenario sufficientemente identificabile e tale da rispondere a quella esigenza vitale che impone alla coscienza di attivarsi (un altro modo per dire ‘permettere al pensiero di pensare’), lo stesso impulso vitale deve concedersi (concederci) l’illusione che ogni cosa (e prima di tutto l’impulso vitale stesso) la si possa guardare dal di fuori. La si possa separare da noi stessi, proiettarla su uno schermo, concedendo nel contempo che tale schermo lo si possa illuminare o abbuiare, allontanare o avvicinare, a piacimento. Non un vero e proprio arresto quindi del flusso vitale e della sequela di immagini, della fantasmagoria, che ne deriva (il vero arresto sarebbe – sarà – la morte), ma una sorta di ‘concessione’ di sé della vita che, per essere da noi, dalla nostra coscienza, accettata come ‘conosciuta’ (vista e interpretata), rende possibile estrapolare un’immagine della realtà, costruirne una copia, in modo da poterla indagare e analizzare come fosse un oggetto esterno/estraneo alla vita stessa…
E a BX, proprio in seguito a queste riflessioni, capitò di rifarsi ad un prodotto della tecnica che si prestava in modo sorprendentemente puntuale come metafora: la vita, o meglio, il risultato del suo svolgersi, si può offrire a noi, alla nostra ‘vista’, come riprodotto su uno schermo che ha tutte le caratteristiche dello schermo cinematografico, quello sul quale assistiamo a immagini in movimento che, proprio perché ‘rubate’ alla cosiddetta realtà, danno l’illusione di averla di fronte senza filtri deformanti, senza proprio quello schermo che invece, per mezzo di un nostro artifizio, ce la mostra solo… di riflesso. Proprio così – si disse BX compiacendosi non poco del rimando, del gioco linguistico, suggerito dalla metafora – ‘di riflesso’, appunto, come è proprio di ogni riflessione! Di ogni speculazione: etimologicamente, di ogni ‘vedere allo specchio’, in uno specchio. Su uno schermo. O anche – recuperando l’allegoria forse più celebre (e che sicuramente era stato lo scenario sullo sfondo del quale anche lui, magari rendendosene conto solo ora, aveva rappresentato sé a se stesso) del pensiero antico – come sulla parete di fondo della ‘caverna’ platonica.

Ma – volle insistere nella sua indagine BX – in che conto dobbiamo tenere queste immagini? Cosa cambia per noi se orientiamo la riflessione a ‘prenderle come sono’ senza pretendere di conoscere, circa il loro formarsi, niente più che il funzionamento di meccanismi che si potranno solo descrivere, mai conoscere nella loro vera origine e natura… in sostanza se ci concentriamo solo su ciò che appare perché in definitiva è poi, comunque, per noi, ciò che è…
o se invece – proprio perché intuiamo che queste immagini sono quel che sono in quanto sono ‘per noi’ – ci concentriamo su questo ‘per noi’ e cerchiamo di indagare, non tanto come si formano in noi, ma cosa un fatto del genere può, o deve, significare?
E’, il primo atteggiamento – questo il dilemma nel dilemma che si presentò a BX – una sorta di accettazione di una forza maggiore che ci obbligherà sempre ad essere in sua balìa soffrendone l’imposizione, rassegnandoci ad un destino che pensiamo in questo modo, se non di assecondare, almeno di non contrastare vanamente, ma che in realtà finiamo per assecondare senza alcuna resistenza, abdicando ad ogni autonomia, ad ogni ‘libertà’…
o è invece il secondo atteggiamento che ci condanna ad una continua, inutile, dolorosa perché inutile, sicuramente vana, serie di contorcimenti su noi stessi dai quali può solo uscire, come risultato finale (e come più volte aveva avuto la sensazione di stare sperimentando) solo una nausea invincibile? A chi, o a cosa, ci dobbiamo rivolgere, se non per risolvere il dilemma, quanto meno per affrontarlo in modo plausibile?
Se ci rivolgiamo – provò a indagare BX – alla vita, o meglio, se ascoltiamo la risposta che ci viene dalla vita, dal momento che è sempre essa che fa da sfondo certo, da causa intrasferibile, a tutti questi scenari, compresa l’esigenza di indagarli, a cosa ci troviamo di fronte? La risposta più onesta gli sembrò questa: alla più profonda indifferenza! O meglio, ad un coinvolgimento talmente sollecito e sensibile a qualsiasi opzione da togliere ogni possibilità di poter stabilire una qualsiasi priorità, una qualsiasi gerarchia, tra le varie opzioni. In quanto tutte ‘vitali’. In quanto tutte ‘mortali’. Alla vita – dovette convenire BX – ogni scelta che venga fatta al suo interno (e ‘fuori’ non è possibile… o forse sì, ma a condizioni che non riusciva a intravedere) serve comunque, le diventa subito consustanziale, è metabolizzata senza residui. La ‘rappresentano comunque’. Quindi è inutile – proseguì di conseguenza – è senza esito, mettersi in ascolto, in attesa, di una indicazione significativa da parte di una vita che, o c’è (e allora tutto macina, tutto ingloba, tutto informa e ‘legittima’), o non c’è (e allora tutto si azzera, tutto si annulla), ma che, fin che c’è, risponde solo a se stessa, si risolve tutta nella sua fatale necessità. Quindi puntare ad usare la riflessione per cercare di conoscere ciò che comunque è e sarà sempre un riflesso, una immagine che uscirà sempre da noi e tornerà sempre a noi per come noi l’abbiamo prodotta e proiettata… anche se non terremo conto di questo, questo ritroveremo…
Questo ritroveremo, e così vedremo stroncata in partenza ogni velleità di conoscenza ‘oggettiva’, tale cioè da potercene servire al di là di un ‘utile’ che per altro si dimostrerà tanto più relativo – quindi non si sa quanto veramente utile – quanto più si cercherà di renderlo ‘più utile’.
D’altra parte – completò la riflessione BX – puntare ‘a non darla vinta’ alla pretesa di questa fantasmagoria di rappresentare l’unica realtà che, piaccia o non piaccia, è a nostra disposizione, cosa produce? Cosa ha prodotto? Nella migliore (‘migliore’ più che altro come eco di certe letture) delle ipotesi il meglio che ha prodotto è un ‘pensiero tragico’, cioè una sorta di resistenza epica, eroica, magari anche sublime, che certamente non è poco… anzi – si sforzò di riconoscere BX – può essere tutto… ma – non poté non aggiungere – un ‘tutto’ che sarà tale solo se sarà ciò che è più prossimo al nulla. Sarà, cioè, il sublime della tragedia, che è l’esaltazione della vita attraverso la sua negazione. Attraverso la morte…
Quindi, per quanti sforzi si facciano per almeno identificare – tanto per utilizzare ancora la compiaciuta metafora – l’‘operatore’ che proietta le immagini dalla sua cabina di proiezione – accettando per altro il fatto che sarebbero comunque immagini messe a sua disposizione, ma non sue – questo operatore assumerà sempre le sembianze dell’io, si presenterà cioè sempre come il mandante di se stesso, rivendicando sempre a se stesso in ogni caso la conoscenza del ‘segreto’ che avvolge il mandante, senza però mai rivelarlo. Se non autoingannandosi. Se non alienando sé in qualcosa di ‘altro da sé’.
Ora – tirò le somme BX – la vita lascerà sempre indagare ciò che offre, ciò che comporta…
anzi, imporrà che lo si faccia, e indicherà in aggiunta, subdolamente, presentandocela come esigenza delle esigenze, cioè come necessità più alta, più nobile, una strada che quasi subito (BX pensava proprio di averne fatta l’esperienza) si rivelerà senza sbocco, ma con tutti i crismi della strada maestra, del percorso irrinunciabile se si vuole governare veramente il proprio viaggio…
salvo poi esigere – sempre lei, la vita – che per poter anche solo stare in piedi e camminare si abbia bisogno di tutto meno che del seguire veramente questa presunta strada maestra. E questo come esperienza ‘originaria’ (nel senso di prima esperienza di vita, e presumibilmente ultima, nel tempo) di tutti.
Ora, questa ‘esigenza delle esigenze’ è l’esigenza di una riflessione radicale, quella che ha dato vita (come fu chiamata in seguito a certi suoi modi di manifestarsi e di esprimersi) anche alla filosofia… ma che, come riflessione radicale ‘originaria’, si presenta come ricerca – per dare un senso, cioè una indicazione di rotta, al viaggio costituito dalla propria parabola esistenziale: obbligata come parabola, ma che si può percorrere identificando e inseguendo scenari sempre diversi – di ciò che sta dietro a tutti questi scenari, di ciò che potrebbe ‘vedere’ questo io ‘al di là’ del vedere sempre e solo se stesso e le proprie emanazioni…
la ricerca cioè di una meta-conoscenza tanto più ostinata quanto più si dimostrerà desolantemente velleitaria. E che – non poté che convergere sul solito punto BX – ha dato origine, è stata l’esigenza che ha dato origine – una volta che si è ritenuto di doverla eliminare, non accettare come esigenza destinata a rimanere tale – alle varie religioni.

Ma BX non si fermò qui, e volle trarre da queste considerazioni il massimo di indicazioni possibili, le più concrete, cioè oggettive, cioè ‘storiche’, possibili. Perché questa ricerca della ‘strada maestra’, comunque impostata e condotta, ha avuto, e continua ad avere, appunto, una sua storia. E non una storia qualsiasi – si disse – ma una storia che potrebbe configurarsi come, né più né meno, la storia dell’umanità, quanto meno della cosiddetta civiltà, perché è stato proprio da qui, ad opera di chi comunque ha provato a seguire il miraggio della strada maestra (quale sia stata, e quale sia, il modo di identificarla e percorrerla) che sono venuti, contemporaneamente e contraddittoriamente, sia la maggior parte degli sforzi per promuovere la vita, sia gli attacchi più violenti, più autolesionisti, portati sempre alla vita. Disegnandone e segnandone inesorabilmente lo svolgersi.
Perché è stato da qui – riformulò e riarticolò la sua convinzione di fondo BX – che si è ritenuto di poter superare la vita, di poter ipotizzare una sua permanenza oltre se stessa la cui ‘conoscenza’ avrebbe permesso di squarciare tutti i veli, tutti gli schermi, che ci occultano il vero Operatore. Denotato in vari modi, ma tutti riassumibili e aggregabili intorno a due poli: Dio e Natura (con teologia e scienza come strumenti relativi di conoscenza), considerati apparentemente in contrapposizione l’uno con l’altro, ma entrambi con la funzione di Causa Prima da cui, in modi anche qui solo apparentemente diversi, è possibile ricavare quella Conoscenza (meta-conoscenza) il cui possesso avrebbe permesso di possedere la vita. Ma così facendo si è decretato la trasformazione di quella che sta sotto gli occhi di tutti come fine della vita, come morte, in suo superamento… ‘superamento’ che ha reso legittimo considerare ciò che stava sotto gli occhi di tutti come morte, un epilogo solo apparente… ma così rendendo legittimo procurare la morte qualora si ritenesse ciò necessario per agevolare l’accesso al suo superamento… da cui la morte, la fine della vita, come sacrificio, come ‘morte per la vita’. Dimensione, questa della morte biologica come condizione vera per il ‘superamento’ della morte biologica, cioè come accesso alla Vera Vita, che fa da sfondo ad ogni religione sorta nel disperato tentativo di giungere alla Vera Conoscenza.
Ecco allora – proseguì BX – che – in questa ‘nuova’ prospettiva (nata in realtà con la capacità stessa dell’uomo di ‘riflettere riflettendosi’, quindi ‘vecchia’ quanto la comparsa nell’uomo di una coscienza) – la insuperabile aleatorietà di tutte le raffigurazioni che si susseguono davanti agli occhi della nostra mente, la inarrestabile caducità, il continuo franare su se stessi di tutto gli scenari allestiti per rappresentarci il mondo, furono – in quel tempo in cui ebbe inizio ‘il tempo dell’uomo’ – tolti (si credette di toglierli) dalla loro precarietà. Ci si rifiutò di vedere svanire ogni per altro necessaria ‘visione del mondo’ (quale che fosse quella deputata a contrassegnare il susseguirsi delle varie ‘civiltà’), e si provò a fissarla su uno sfondo considerato tanto più stabile e solido quanto più di natura diametralmente opposta a quella materia di cui è impastata la vita… dalla quale pertanto la vita – la Vita, quella Vera – andava separata, liberata, e riplasmata con tutt’altra ‘materia’: la sostanza spirituale. Che non conosce decadenza, che non è soggetta al divenire, che resta eternamente se stessa, e che quindi, se la si considera la vera ‘sostanza’ (ciò che gli antichi filosofi facevano derivare significativamente da sub-stantia, cioè ciò che ‘sta sotto’ e sorregge ogni cosa), neutralizza in sé ogni divenire, ogni decadenza, ogni apparenza… riscatta e ridà consistenza a tutte le rappresentazioni in quanto, per sfuggenti che siano, possono sempre essere ricondotte alla Causa Vera del loro incessante mutare.
E così – completò la sua ricognizione BX – si arrivò anche a credere di poter ‘conoscere’ l’Operatore, cioè a credere di poter – o comunque di dover – conoscere veramente da dove provengono le scene, chi allestisce e smonta i scenari in continuazione perché è così che si manifesta il suo potere
un potere sottoponendosi al quale è dato parteciparne. E’ dato condividerlo, anche se solo come strumenti, potendolo così esercitare su tutto e su tutti come operatori al comando dell’Operatore. Legittimati da questa presunta conoscenza. Da questa meta-conoscenza.

Ma – provò a proiettarsi più a fondo nella vicende storiche BX – se questo fu lo sfondo su cui poté realizzarsi la gran parte della promozione umana, come andarono poi veramente le cose proprio dal punto di vista della conoscenza? E soprattutto, con quali conseguenze?
Per quanto questa meta-conoscenza funzionasse da appagamento e nello stesso tempo da stimolo, la precarietà delle immagini, per l’uso comunque che se ne doveva fare, restava inalterata. Il ricondurre le immagini ad una Causa considerata certa proprio perché dimorante in una dimensione occultata dalle immagini, di per sé non rendeva le immagini – quanto meno in relazione alla loro funzione di rappresentazione insostituibile di ogni tipo di realtà – più padroneggiabili, più in grado di restituirci una realtà liberata dalla tirannia dell’io, più affidabile. ‘Leggere’ un mondo considerato Vero ma occultato tra le righe di ciò che appare, diventava impossibile se intanto non ci si ingegnava a decifrare ciò che appare, a partire da lì. Per andare oltre, certamente, ma il primo punto fermo per costruire un sistema di conoscenze affidabili, era, non poteva che essere, un confronto/scontro con le immagini. Con i fantasmi
Che si possono, anzi si debbono, esorcizzare, ma che, fin che siamo costretti a guardare con questo ‘occhio’ che incessantemente ce li fa volteggiare davanti, cioè – inserì il suo inciso, ora più che mai obbligato, BX – fin che viviamo, ritorneranno imperterriti e inarrestabili ad uscire dalla nostra mente come larve evanescenti. E’ ben vero che quei Viaggiatori Per Strade Maestre i quali non si sono accontentati di viaggiare per conto proprio, ma (qui BX non nascose il suo sarcasmo) si sono sentiti in dovere di prenderci per mano e guidarci, si sono impegnati soprattutto a insegnarci come, per restare nella retta via, sia necessario proprio riuscire a vivere non tenendo conto, o tenendo sempre meno conto, di questo mondo della rappresentazione, di una realtà fatta solo di apparenze, di fantasmi appunto, ma pure essi hanno dovuto ammettere che l’esistenza (secondo alcuni di loro per una ‘colpa originaria’ dovuta ad una ribellione nei confronti dell’Operatore, secondo altri per colpa di una Natura Matrigna), o si svolge puntando ad usare al meglio queste apparenze, o, se ci si volesse liberare di esse veramente, ci dovremmo liberare anche della vita. Cosa per la verità contemplata in certe espressioni estreme di tali insegnamenti (come prospettiva ultima – era per altro convinto BX – da tutti), ma la maggior parte di essi, se non voleva incoraggiare all’autoeliminazione qui e subito, rendendo ai più di conseguenza poco accettabili questi insegnamenti, si sono dovuti ingegnare per provare a delineare un mondo che intanto, per apparente che fosse, andava pur sempre – naturalmente con ‘occhio’ ripulito, allenato a ‘guardare oltre’ – descritto, indagato, interpretato per se stesso…
e – espresse il suo duro giudizio BX – con la più spericolata delle operazioni, quasi sempre nascondendosene l’ipocrisia di fondo, adeguato a servire contemporaneamente questa vita e l’Altra. Così che tutto, o gran parte, del ‘darsi da fare’ in questa prospettiva ha comportato un esercizio immensamente arduo – in realtà destinato al fallimento – di conciliazione dell’apparente col reale (di ciò che si coglie in superficie con ciò che ‘sta sotto’, del ‘materiale’ con lo ‘spirituale’, dell’umano col divino/diabolico, e così via puntando a sciogliere/conciliare analoghe, del tutto arbitrarie, contrapposizioni), che innegabilmente – non ebbe difficoltà a riconoscere BX – ha dato un impulso straordinario, ha enormemente affinato questo ‘darsi da fare’, ma al prezzo di vedersi sempre più allontanare – e tanto più quanto più si progrediva negli sforzi raggiungendo risultati insperati – una possibilità reale di conciliazione. Quanto più si sono andati approfondendo gli sforzi per analizzare, al fine di conoscere, al fine, a sua volta, di cambiare, modificare, un ‘mondo della rappresentazione’ che, proprio in quanto considerato puramente fittizio, era per definizione perfettibile all’infinito, tanto più le esigenze di questa operazione hanno acuito la necessità di ‘sospendere’, di mettere tra parentesi, proprio ciò che doveva essere ‘il fine ultimo’ di tanta operosità: costruire un sistema di conoscenze veramente affidabili cui affidarsi per ogni cosa. Si dovette constatare che, o si concedeva sempre più affidabilità, valore quindi sempre meno ‘relativo’, alle conoscenze che l’indagare il mondo fenomenico (come fu anche chiamato il mondo della rappresentazione) rendeva possibili, e cioè si riconoscevano queste conoscenze come sempre più vincolanti, oppure passi avanti nell’indagine non si sarebbero potuti fare… e d’altra parte i ‘passi avanti’ per conoscere sempre più un mondo considerato dell’apparenza non potevano che essere ininterrotti e infiniti.
E sorse il dilemma la cui risoluzione diventava via via sempre più indilazionabile (e secondo BX di drammatica, distruttiva, attualità): o si dava un primato anche operativo, tale cioè da incidere strutturalmente sul modo di rapportarsi al mondo dell’apparenza improntando il rapporto integralmente alle esigenze di quell’altro mondo, quello ‘reale’, e quindi si vanificavano tutti gli sforzi per conoscere intanto questo mondo… oppure, se si voleva proseguire per questa via, bisognava in qualche misura non prestare attenzione più di tanto alle esigenze di ‘conoscenza vera’.
In realtà – ritenne di constatare BX – non vennero affatto abbandonati gli sforzi per tentare una conciliazione da cercare, per così dire, ad un ‘livello più elevato’, per un ‘equilibrio più avanzato’, e facendo di necessità virtù… e non c’è dubbio – convenne – che ciò abbia a sua volta comportato ulteriori, anche straordinarie, elaborazioni che hanno illuso circa la possibilità di progredire contemporaneamente sulla strada della ricerca scientifica (era stata soprattutto una scienza – un sistema di elaborazione e sfruttamento di conoscenze – rivoluzionata in funzione di una maggiore efficienza investigativa e operativa ad accelerare potentemente il processo) e su quella della ‘vera conoscenza’, ma il risultato, sempre più difficile da nascondere, fu una deriva schizofrenica, ad ogni passo avanti che si andava facendo, sempre meno arginabile…
E giunta, questa deriva – fu la poco rassicurante conclusione cui approdò la ‘rassegna storica’ di BX – , secondo molti segnali ricavabili proprio in seguito agli straordinari risultati ottenuti dalla scienza, ad un punto molto prossimo al punto di non ritorno, che intanto però aveva prodotto, in perfetta simmetria con tali successi, una irrefrenabile ansia di recuperare l'altro mondo. E non soltanto in senso figurato, ma proprio (ecco il segnale inquietante di un possibile ‘punto di non ritorno’) con un ritrovato disprezzo per questa vita che intere popolazioni – tanto le più progredite quanto le più arretrate… in modo diverso, anzi, per molti aspetti diametralmente opposto, ma accomunate da un impulso autodistruttivo traducibile in una possibile Apocalisse dalla possibilità di poter accedere entrambe ad armi ‘finali’ – manifestano in funzione di una vita autentica sempre meno conciliabile con questa. ‘Vita autentica’ – chiosò infine BX – che può essere promessa paradossalmente tanto dai tradizionali Funzionari dello Spirito, quanto dai Profeti delle ‘magnifiche sorti e progressive’, in contrapposizione solo apparente, in quanto, di fatto, si alimentano delle stesse meta-conoscenze, gli uni e gli altri disponibili, per approdare ai rispettivi Eden, o comunque per imboccare finalmente la Strada Maestra che ne permetterà l’accesso, ad abbandonare, tutti insieme appassionatamente, questa valle di lacrime.
L’esigenza, insopprimibile, di una meta-conoscenza, posta dalla vita come esigenza che deve trovare soddisfazione pena la impossibilità della vita stessa di affermarsi, a questo sembra avere condotto.



Settimo movimento.
Il possibile frutto migliore della ribellione.


Ma – questa, a questo punto, fu la domanda che salì direttamente dal cuore di BX – deve per forza essere questo l’approdo cui pare sia giunta una storia della civiltà scandita dalla esigenza vitale di ‘riflettere’ sulla vita stessa, di andare alla ricerca di una conoscenza in grado di ‘dare un senso’ all’esistenza? Conoscenza che, in quanto conoscenza impone in qualche modo un ‘arresto’ del flusso vitale in funzione del rendere possibile un qualche discernimento all’interno di un susseguirsi caotico di immagini che noi stessi (la vita) produciamo, ma che, quando si risolve in meta-conoscenza rischia, sta rischiando, di anticipare e rendere definitivo per tutti tale arresto. Si può scongiurare tale esito – si chiese BX trascinato dall’enfasi – per ora soltanto minacciosamente stagliato all’orizzonte, tenuto ancora a fatica lontano dall’umanità come tale, come genere, perché ancora in grado, questa umanità, in talune sue componenti più che in altre, di convivere con un sano dubbio, mentre però nello stesso tempo sempre molti, troppi, anzi decisamente i più, sono quanti continuano a soggiacere ai profeti del ‘sacrificio della vita per la vita’ probabilmente senza nemmeno rendersi conto del perché del loro sacrificio, del loro ‘essere nati per morire’, come tutti, ma al solo paradossale, beffardo scopo di esaltare proprio così, con i loro stenti, la vita?
A cosa sarebbe potuto servire – se questo scenario aveva (come sicuramente per BX aveva) una sua credibilità – l’ateismo? L’ateismo come lui lo sentiva-pensava e che gli aveva permesso di prospettare questo scenario?

In risposta elaborò una proposta, meglio, prospettò un’ipotesi che considerò una delle facce di detto ateismo forse più utili per tutti da presentare. Questa.
Ci si può rivolgere alla vita – riprese e rielaborò un passaggio della sua ultima riflessione sulla conoscenza – essendo la vita ciò di cui solo veramente si dispone, ritenendo di poter avere indicazioni, quali che siano, solo da essa in quanto vita, anche nella consapevolezza – quando c’è ed è posta in primo piano – della sua insuperabile precarietà… Ma, se l’esistenza, quella di ognuno, è totalmente tributaria della vita, cioè di una parabola biologica che porta inevitabilmente alla morte, quali mai indicazioni potranno venire da un ente, cui tutto si deve, da cui tutto dipende, senza il quale c’è per noi solo il nulla, ma che, per imporre se stesso, deve – questo il messaggio più significativo che BX ritenne giuntogli da Schopenhauer – nascondere il proprio epilogo, la propria fine, senza per altro potercene negare la consapevolezza… e mentre per altro è proprio qui che le varie religioni giocano – a parere di BX, barando – quella che ritengono la loro carta migliore, la carta decisiva, certamente la più suggestiva, cioè dichiarando la vita sacra? Tentando in altre parole di rendere non precario, non caduco, ciò in definitiva di cui solo si dispone e di cui per altro la coscienza ci obbliga a conoscere l’inesorabile deterioramento e annullamento nel tempo, sacri-ficandola proprio come vita, rispondendo in realtà solo al suo richiamo di morte? Per cui ogni aldilà, reale o simbolico che lo si intenda, diventa così solo una fuga dall’aldiqua nella speranza di una qualche salvezza mentre in realtà è solo l’espediente della vita stessa per farsi accettare anche come morte?… Questo dovrebbero, se non ‘credere’, sforzarsi almeno di prendere in considerazione invece di rimuoverlo, gli uomini di fede. Di qualsiasi fede, da quella religiosa in senso proprio, a quella che si manifesta nel voler realizzare una qualche utopia invece di viverla come esigenza che resta viva solo se non la si soffoca ‘realizzando’ l’utopia, solo se resta quel ‘luogo che non c’è’ da cercare continuamente ben consapevoli però che, appunto, c’è, ma solo come esigenza.

Ma a questo punto ecco che si presentò per BX quella che lui definì la domanda delle domande, che altro non esprime se non un aspetto di quel circolo vizioso che costituisce la vita stessa della coscienza: “Come è possibile ribellarsi alla vita – al suo esito – rispettandola?”
Ed ecco la risposta. Per l’uomo, costretto dalla vita a ‘servirla’ e nello stesso tempo dotato dalla vita della consapevolezza, della conoscenza di ciò, forse non c’è che una strada da seguire: quella della conoscenza.
Ma, quale conoscenza?
Una conoscenza – ecco il punto – di cui debbono essere fissati rigorosamente e assiduamente i limiti! Si devono fissare, nel senso di tenerli costantemente presenti, i suoi limiti perché la conoscenza non diventi quell’espediente autolesionista messo in atto dalla vita stessa per perpetuarsi come specie al di là, e a spese, della vita degli individui, l’unica per altro che gli individui hanno veramente a disposizione. Invece di negare – o porre tra parentesi pensando così di neutralizzarla – la vita individuale sapendola recante con sé il proprio annullamento, forse è il caso di avere come punto di riferimento per l’esistenza di ognuno, per la vita di ognuno, proprio il suo limite, i suoi bordi, i suoi confini, il nulla che circonda proprio, e soltanto, la vita di ognuno.
Cosa hanno prodotto infatti tutti i tentativi di andare oltre questi limiti? A parte i contenuti espliciti o impliciti delle varie dottrine religiose, si prenda il tentativo che per tanti aspetti era sempre sembrato, ogni volta assumendo però connotati diversi, il più lungimirante, il tentativo cioè operato dai vari Umanesimi di ‘recuperare’ la vita individuale inserendola in un contesto più ampio: con cosa è finito sempre di fatto per identificarsi questo ‘contesto più ampio’? Di fatto con la vita della specie, sia pure ricondotta, riproposta, a livelli differenziati (da quello minimo, la famiglia, a quelli via via più ampi e rappresentativi, come il clan, la tribù, la nazione, l’etnia, la razza ecc.), certamente necessari perché ‘voluti’ dalla vita, ma pur sempre ‘derivati’ di una Umanità puramente astratta, collocata in una dimensione nella quale l’individuo reale, l’individuo storico, ha sempre finito per perdere la propria identità (paradossalmente ricalcando quell’anonimato individuale che ogni umanista ha sempre ‘riservato’ con più o meno disprezzo agli animali) nel tentativo di conquistarne una che andasse oltre i limiti che stava soffrendo. Che la coscienza costringeva a prendere atto soffrendone. Ogni Umanesimo, comunque identificato o teorizzato, cosa è stato se non l’espressione di una proiezione di sé di ognuno al di là del proprio tempo reale per rintanarsi nell’alveo materno di una Umanità senza volto perché senza tempo reale? Che è invece, il tempo reale, il tempo in cui si snoda la parabola biologica propria dell’esistenza di ogni uomo. Cioè dell’esistenza dell’uomo come uomo, come essere animato dotato di coscienza.
E forse allora – rilanciò BX – per non periodicamente imbattersi nel fallimento (per altro nel tempo sempre meno circoscritto a singoli settori della società umana e sempre più esteso all’umanità intera) di un umanesimo sempre prospettato come ancora di salvezza e mai in grado di esserlo veramente perché non ha mai potuto, come mai potrà, essere in grado di superare lo scoglio che si è sforzato e si sforza inconsciamente di superare, cioè lo scoglio della morte… forse allora conviene provare a costruire un sistema di conoscenze, imposto sì dalla vita, ma basato su ciò su cui la vita di ognuno in realtà galleggia, su ciò che realmente la delimita, la circonda, la de-finisce: il nulla!

Costruire sul nulla, quindi?
Sì, ma per non farsene schiacciare!
E a che condizioni la proposta di puntare sul nulla può non essere – come invece è sempre stata, e con ottime ragioni, considerata – una proposta nichilista, cioè la proposta della fuga più rovinosa da sé dell’uomo? Perché – argomentò BX – al di là di tutte le considerazioni che si sono fatte, e si possono sempre fare, sulla conoscenza, resta il fatto che essa è, e sarà sempre possibile ad una condizione che viene prima di ogni altra possibile, le informa tutte, in quanto fa tutt’uno con ciò che le rende possibili, con ciò mancando il quale niente è possibile: la vita, appunto. Ma una vita – non bisogna mai stancarsi di ribadirlo, di averlo presente – che è solo e sempre la vita di ognuno, la vita del singolo, e non sarà mai la Vita intesa come ‘la vita in sé’, e che come vita solo di ognuno è tutta rinchiusa entro limiti insuperabili il cui ‘aldilà’ non è esperibile da nessuno…
anche se – ecco per BX il possibile equivoco che è sempre stato alla base dei tanti equivoci che possono, o forse stanno, per portare l’umanità a negarsi come tale – questo è ciò che la vita impone per imporsi. Per venire sacralizzata. Per essere assolutizzata in quanto senza alternative.
In effetti è senza alternative come esistenza, ma è l’esistenza che rappresenta di per sé una alternativa… ma un’alternativa a cosa? Al nulla! Il quale nulla pertanto non è, non potrà mai essere una alternativa alla vita inteso come altra vita, ma la sua totale, radicale, negazione. Aut-aut. Un nulla pertanto – ecco la ‘positività’ che BX ritenne di intravedere nel nulla – che (come in buona sostanza pare sostenesse già l’antico Epicuro) non si potrà mai ‘vivere’, e/ma che, proprio per questo, è l’orizzonte vero della vita. E’ l’ambito insuperabile entro il quale soltanto la vita ‘è’, e che mai potrà negare, pur ‘dovendolo’ negare per se stessa, per essere ciò che è.
Ecco allora – concluse riassumendo BX – che solo la consapevolezza dei limiti (quella consapevolezza dei limiti che la vita stessa ha reso, sì possibile, ma come espediente per nasconderli esaltando, spingendo ad esaltare, la consapevolezza come modo per poter così affermare se stessa oltre se stessa, per ubriacare l’uomo inebriandolo con il vino della consapevolezza) può essere usata per definire veramente l’ambito della conoscenza, lo spazio in cui è veramente possibile, le condizioni in cui può esercitarsi finalmente non a danno dell’uomo, di ogni uomo reale, cioè di ogni singolo uomo, ma per la sua promozione. Quel famoso senso (significato) che la vita ci impone – avendoci dotato di una coscienza – di perseguire, può non portare necessariamente allo smarrimento di qualsiasi senso ogni volta che ci sembra di averne afferrato uno che poi, subito dopo, ci sfuggirà da tutte le parti, soltanto se ‘guarderemo’ la vita sapendo mantenerla ferma nei suoi limiti, ‘usando’ il nulla che la circonda per sapere di ciò che ‘vi sta dentro’, non per pretendere di sapere del nulla.
Per tenere ferme le immagini rispettandone il moto incessante, o – riprendendo uno dei temi sempre ricorrente nella storia del pensiero con lo scopo di fare del pensiero lo strumento più di ogni altro fruibile per rendere sempre meglio vivibile la vita – per raggiungere ‘l’unità nella diversità’, non si deve lasciare che le immagini si disperdano nel nulla.
Ma per non lasciarle affogare nel nulla bisogna essere sempre coscienti del nulla, non rendersene schiavi proiettando se stessi in un qualche ‘aldilà’ considerato ‘altro’ dal nulla.
Cioè, in realtà, nel nulla.
L’ateo – osò infine sentenziare BX – è colui che ci salverà dal nulla, dallo sprofondare nel nulla mentre ancora viviamo, perché è colui che si sforzerà di non esorcizzarlo.

 

 

 

Appendice

BX condusse quindi questo viaggio intorno, e soprattutto dentro, se stesso, in un momento della sua esistenza in cui ritenne di avere accumulato tante e tali esperienze da esigere ormai che queste esperienze fossero, non tanto rievocate, rivisitate, quanto messe a frutto, cioè quando vide se stesso come una sorta di terminale ancora tutto da scoprire. Meglio, da costruire. Meglio ancora, da far emergere, come per forza di inerzia, da queste esperienze. Condusse perciò questo viaggio guardando a se stesso come a una sorta di terminale inteso come esito (‘exitus’) obbligato, che si impone da sé, costruito, appunto, per forza di inerzia, a sua volta riflesso evidente di una esistenza che stava necessariamente concludendo la sua parabola, che si stava avvicinando alla sua fine…
Impossibile da evitare questa fine – e sommamente pericoloso è illudersi del contrario – ma affrontabile ‘positivamente’, per non farsene inghiottire anzitempo, in un solo modo secondo BX: guardandola in faccia. Cioè, guardando se stesso come conclusione di un viaggio, di un percorso, forse obbligato nel suo svolgersi, certamente obbligato nel suo concludersi, ma che si mette a disposizione di chi lo ha compiuto per farsene interpretare. Non descrivere, rievocare, ma proprio interpretare, cioè vivendone la fine come il solo vero inizio. Il solo vero senso, il solo vero significato finalmente intravisto… e da lasciare in eredità nel momento stesso in cui doveva servire per sé.
Significato che BX ritenne di identificare, meglio, di ‘costruire’, con una professione di ateismo.
Ateismo che pertanto fu per lui, certamente una scelta personale, soggettiva, ma nello stesso tempo fu quanto di più oggettivo riuscì a rintracciare nel mondo e nel tempo nel quale si era trovato a dover condurre la propria esistenza una volta che si era deciso a ‘spendere’ questa esistenza soprattutto per ricercarne il senso. Ateismo, in altre parole, che fu sì per lui, come usa dire, una scelta di campo, una opzione da privilegiare rispetto ad altre (ad una sola altra, per la verità: quella teista, nella sua più ampia accezione possibile), ma che andò ben al di là di un pur necessario ‘doversi schierare’ per diventare tutto quanto si può ricavare da una condizione umana vissuta e pensata. Pensata e vissuta.

Per cui trovare il senso della propria esistenza nella sua conclusione, nella sua fine, non significò per lui abbandonarsi alla fine, perdersi nel nulla… e non solo per resistere alla tentazione di un esistenzialismo vissuto, o come moda, o come copertura più angosciosa dell’angoscia che si vorrebbe affrontare e vincere (in entrambi i casi secondo BX solo esistenzialismo di maniera, anche quando sinceramente sofferto), ma come modo più completo, più pieno possibile, per appropriarsi di un’esistenza tanto casuale quanto non sostituibile con alcunché.
E fu così, dall’interno di questa ‘sistemazione’ tanto più definitiva quanto più provvisoria e viceversa, che si liberò da tutta una catena di timori reverenziali che gli avevano sempre impedito, non solo di dare a se stesso una qualche credibilità ad una qualsiasi interpretazione delle proprie esperienze, ma di procedere ad una lettura della vicenda umana con a disposizione una falsariga da seguire finalmente affidabile… perché adesso, con la professione di ateismo, questa falsariga, questa traccia da privilegiare come unica veramente reale e concreta perché veramente umana tra tante illusorie in quanto tendenti a proiettare l’uomo oltre se stesso, a fuggire da se stesso, si stagliava netta nel suo orizzonte dandogli la possibilità di ‘percorrerlo’ senza il timore di aver imboccato una strada priva di uscita. Senza più il timore di essersi inoltrato per un sentiero destinato a interrompersi, perché ora era in grado di vedere nella sua inevitabile, inesorabile, interruzione non una fine, ma un inizio.
Ora si sentì in grado di procedere – sforzandosi di evitare le secche della megalomania da un lato, e della pura gratuità dall’altro – a interpretare se stesso e il mondo dall’interno di una legittimità a farlo che non doveva rendere conto a niente e a nessuno che fosse altro dalla pura e semplice dignità umana. Tutta identificabile, questa umana dignità, nell’esercizio mai dismesso, mai barattato, della ragione… anche, e soprattutto, quando questo esercizio metteva a rischio e faceva vacillare tutti gli espedienti messi in atto dalla vita per affermare se stessa.
E l’espediente più deleterio messo in atto dalla vita per affermare ciecamente se stessa, BX credette – puntando sull’esercizio della ragione come unico modo per testimoniare della dignità dell’uomo, e quindi denunciando l’espediente che la dignità umana gli imponeva di denunciare più di ogni altro per conservarsi tale – di averlo individuato senza ombra di dubbio nell’illusione di poter trasformare l’esigenza prima di ogni esistenza biologicamente intesa (quella del proprio mantenimento illimitato) in possibilità effettiva. Cioè nell’illusione, in altre parole, di trasformare il desiderio in desiderio comunque appagato, ciò che non può che spingere l’uomo oltre la propria condizione, vale a dire gettarlo nelle braccia di quel nulla d’esperienza al quale vuole sfuggire...
Nel quale invece tutte le sue opere stavano rischiando ogni giorno di più di farlo precipitare, soprattutto l’opera ritenuta la più sicura per porsi al riparo da ogni rischio di cadere nel nulla e che aveva impresso il suo marchio mortifero su tutte le altre opere, anche quelle più vitali: la costruzione dell’edificio religioso inteso nella sua più ampia accezione. Di fronte al gigantismo che ormai palesemente rischiava di far franare questo edificio su se stesso, di farlo implodere, di fronte a tanta umanità ancora, anzi sempre più convinta, rifugiandosi in questo edificio, di esorcizzare il nulla, e magari convinta di poterlo fare proprio sostituendo i vecchi edifici delle religioni tradizionali con nuove cattedrali presunte laiche ma in realtà costruite con le stesse funzioni esorcizzanti, professare l’ateismo non fu più per BX solo la rivendicazione di un diritto inalienabile, ma il modo per dichiarare tutta la sua fede nell’uomo nel momento storico in cui l’alienazione di sé di questo stesso uomo lo stava spingendo lungo una strada che non lasciava intravedere ritorno. Che lo stava gettando nelle braccia del nulla alla stessa velocità con cui si illudeva di sfuggirgli.
E di fronte a questa visione, magari ossessiva, sicuramente apocalittica, ma non gratuita come non è gratuita ogni ossessione quando è il distillato di un’esperienza pensata (di una passione non solo ‘patita’ perché il più possibile pensata), BX ritenne di avere il diritto/dovere di ‘costruire’ una visione in grado di sostituirsi a questa Apocalisse annunciata. Costruirla per sé… ma come la si potrebbe costruire per ognuno. Come ognuno la potrebbe costruire. Ognuno considerato simile a sé in quanto animale senziente e pensante come è ogni uomo, considerato simile a sé perché condivide con ogni altro un’esistenza di animale senziente e pensante. Che sente pensando e pensa sentendo. Costruire insomma una visione connaturata a quell’‘animale razionale’ nell’accezione che BX aveva fatta propria della definizione aristotelica di uomo, e che sola accomuna alla fine (alla fine delle contrapposizioni cui lo vorrebbe costringere la vita) ogni essere umano.
Forse – si era convinto BX mentre andava elaborando la sua ‘professione di ateismo’ – era giunto il momento per l’umanità di far fronte ad una condizione umana contrassegnata dal bisogno in un modo più ‘economico’, cioè più razionale relativamente a tale condizione, di quanto si fosse fatto fino ad ora, vale a dire considerando questa condizione ineliminabile e sforzandosi pertanto di non creare altri bisogni con cui appesantirla in modo sempre più insopportabile! Perché lo sforzo, a suo modo eroico, comunque certamente umano, umanissimo, anzi ‘troppo umano’, di liberarsi dal bisogno puntando a costruirsi un mondo in cui poter abitare liberi dal bisogno, forse aveva già dato tutto quanto poteva dare, e forse – nella ‘visione’ di BX – stava togliendo ogni giorno sempre più proprio in proporzione di ciò che stava dando… e dal momento che ciò che da sempre l’uomo si era proposto, con le religioni, era liberarsi in assoluto dal bisogno, e dal momento che per raggiungere questo assoluto aveva ormai elaborato quanto bastante per ‘liberarlo’ in realtà da se stesso (per eliminare per sempre il bisogno eliminare inconsciamente se stesso), o si toglieva l’assoluto, comunque identificato, dall’orizzonte dell’umanità, o questo assoluto si sarebbe rivoltato, come si stava rivoltando, contro di lei portandola all’autoannientamento.

Se l’assoluto era servito a qualcosa, il prezzo che per ottenere questo qualcosa era sempre stato pagato in termini di conflittualità tra i vari modi escogitati per raggiungerlo, ora, secondo BX, non era più sostenibile, e l’unico vero servizio che l’assoluto ancora poteva rendere all’umanità era quello di togliersi di mezzo nel solo modo possibile: lasciarsi analizzare nel suo lato oscuro in modo da poterlo identificare e impedirgli così di soverchiare quanto di luminoso aveva pur saputo costruire.
E questo (metterne in evidenza il lato oscuro per salvare quello in luce) era per BX l’unico modo possibile per neutralizzarne la carica distruttiva, in quanto pensare di eliminarlo completamente, ciò eliminarlo anche come esigenza, era invece il solo modo per lasciargli mano libera, per lasciarlo agire indisturbato… Come aveva finito per fare – contro se stesso, vanificando, anzi rendendo spesso controproducente, la sua pur generosa battaglia – un certo ateismo. Forse tutto.

Fu perciò che BX – prima o dopo quanto è esposto in queste pagine, prima o dopo queste od altre riflessioni… poco importa stabilirlo – diede forma ad un testo – L’ombra di Buddha (sottotitolo: “Note su ciò che impedisce al pensiero ateo di essere un pensiero il più possibile libero – dove il titolo era ricavato dal par.108 (Libro III) contenuto ne “La gaia scienza” di F. Nietzsche, che conosceva in questa traduzione: “Dopo che Buddha fu morto, si continuò per secoli ad additare la sua ombra in una caverna – un’immensa, orribile ombra. Dio è morto: ma stando alla natura degli uomini, ci saranno forse ancora per millenni caverne nelle quali si additerà la sua ombra. – E noi – noi dobbiamo vincere anche la sua ombra.”
Ecco il testo.

 

 

 

L’ombra di Buddha
(Note su ciò che impedisce al pensiero ateo di essere un pensiero il più possibile libero)

Dopo che Buddha fu morto, si continuò per secoli ad additare la sua ombra in una caverna – un’immensa orribile ombra. Dio è morto: ma stando alla natura degli uomini, ci saranno forse ancora per millenni caverne nelle quali si additerà la sua ombra. – E noi – noi dobbiamo vincere anche la sua ombra!”

(F. Nietzsche – La gaia scienza – Libro III, par.108)

I

‘L’uomo ha creato dio’: una possibile verità con ancora troppo poca storia.

Ecco una possibile verità la cui legittimità come tale (come verità possibile) sarebbe riconosciuta da chiunque provasse semplicemente a mettere a confronto con un minimo di disponibilità critica, di autonomia di giudizio, le varie mitologie che hanno corredato, e continuano a corredare, le varie religioni storiche… Vi dovrebbe constatare però come ciò sia già stato fatto, e anche con lucidità e passione, ma evidentemente in modo ancora poco incisivo se confrontato con la invece infinita passione con cui ogni gruppo umano comunque organizzato ha proiettato (e continua a proiettare) nella trascendenza l’immagine che desidera avere di sé e che non riesce a trovare nel momento storico che sta vivendo. Che desidera e che non riesce a trovare, o che comunque sente il bisogno impellente di immaginare, di figurarsi…
E che continua a rappresentarsi anche quando deve ricorrere ai più sofisticati espedienti dialettici per tenere comunque in piedi quell’edificio in cui si è rifugiato (e continua a rifugiarsi) da tempo immemorabile per ripararsi dalla fatica – diventata, inconsapevolmente e quindi pericolosamente, paura – di vivere.


II

‘L’uomo ha creato dio’: una verità che fa soffrire. Che forse deve far soffrire.

Per rovesciare il nesso causale tra umano e divino che tutta una tradizione ha costruito alle nostre spalle e di cui si è eredi, senza la sensazione di operare su di sé una violenza quasi insostenibile, una vera e propria lacerazione di quel cordone ombelicale che ci lega simbolicamente alla vita, occorrerebbe la concomitanza di due condizioni, l’una escludente l’altra: una totale innocenza, intesa come totale distacco da ogni condizionamento dovuto al nostro essere ognuno erede di una qualche tradizione, e una consapevolezza talmente radicata di questo condizionamento da usarla proprio per liberarsene. Per la verità, la prima condizione è puramente virtuale, mentre la seconda sarebbe il punto d’arrivo di un percorso che dovrebbe portare proprio alla prima…
Ci sarebbe sempre la possibilità di essere eredi di una qualche tradizione atea, ma anche questa sembra solo virtuale, sia perché scavando, e neanche tanto a fondo, in questa presunta tradizione atea la si scoprirebbe – nel momento in cui sembra diventare senso comune, scelta generalizzata e condivisa – per quella fragile copertura di un pensiero pur sempre magico/religioso che quasi sempre è… sia perché, se tale invece veramente fosse, cioè compenetrazione nel significato pieno di un pensiero ateo, non ci sarebbe niente da rovesciare.
Quindi, quasi sempre c’è solo da soffrire…
ma per liberarsi dalla più compatta e, una volta che se ne diventi consapevoli, insostenibile per la nostra coscienza, delle alienazioni.


 

 

III

‘L’uomo ha creato dio’: una ‘rivoluzione copernicana’ tanto facile in apparenza quanto difficile in realtà.

Se si usasse come punto archimedico di una rivoluzione copernicana – tanto facile da sostenere concettualmente quanto difficile da accettare e far diventare senso comune, e per ciò stesso difficile poi da accettare anche concettualmente – il fatto che è stato l’uomo a creare dio e non viceversa, cosa resterebbe in piedi di tanta speculazione teologica?… L’analogia con quella che a suo tempo fu la rivoluzione copernicana vera e propria è per altro lampante: ne deriverebbe una semplificazione che – allo stesso modo delle incredibili complicazioni messe in atto per ‘legittimare’ il sistema tolemaico rivelatesi poi per quello che erano, cioè ingegnosissime costruzioni elaborate per orientarsi all’interno di una ipotesi accettata ma tutta da verificare – vorrebbe dire fare piazza pulita in un solo colpo di tutta una serie di sforzi tendenti a far quadrare il cerchio di un dio il quale, più lo si evoca per renderlo accessibile e fruibile, per poterlo afferrare, più sfugge e si nasconde nelle pieghe di questi stessi sforzi, che paradossalmente tendono a renderlo tanto più prezioso, tanto più desiderato, quanto più inaccessibile… fino all’inverosimile, all’autoescludente come esseri pensanti e senzienti, ‘credo quia absurdum’.

Ma forse proprio qui sta la vera difficoltà: sarebbe tutto troppo semplice, o meglio, tutto suonerebbe come troppo semplicistico! E occorrerà sempre tenerne conto. Dopo tante appassionate e nello stesso tempo complesse speculazioni, che indubbiamente hanno potenziato e affinato la mente e il cuore umani, pensare che tutto possa dileguarsi e svanire come un lungo e fervido sogno al momento del risveglio, da un lato è sentito come il dover dilapidare un enorme patrimonio che, proprio per sopportare la pena di vivere, è stato costruito con tanta fatica, e dall’altro si vorrebbe che almeno questo sperpero comportasse altrettanta fatica: per offrire le stesse garanzie di conquista faticosa nei confronti del male di vivere. E invece la strada che ci viene spianata davanti con questa rivoluzione si presenta concettualmente così dritta e libera che può sembrare proprio per questo un miraggio perfino più ingannevole dopo l’abitudine a tante curve, giravolte, biforcazioni, sentieri interrotti…
Si prenda – come esempio che, in quanto esempio limite, rappresenta più di ogni altro questa sconcertante evoluzione-involuzione – il dio cristiano. Il dio cristiano è un dio che si fa uomo per amore dell’uomo! Mettendo a soqquadro e rivoluzionando tutte le nozioni di divinità fino ad allora ricorrenti, e impegnando le menti più acute e i cuori più appassionati del tempo (e del tempo a venire) a definire la natura di un figlio di dio che, anche nella terminologia cui più volte si è ricorso – sia pure in senso figurato, ma rivelando un’emozione autentica – era chiamato allo stesso titolo ‘figlio dell’uomo’…
Figlio dell’uomo!: ecco la prospettiva veramente nuova che tenta di aprirsi la strada, ma che deve farsi largo tra le infinite difficoltà emergenti da questa esigenza di avvicinare un dio pur sempre ancora troppo lontano dovendo rappresentare il desiderio inappagato, e umanamente inappagabile, di sconfiggere il dolore e la morte. E si è tentato, e si tenta, di tutto pur di salvare nello stesso tempo l’uomo e la sua proiezione al di là di sé, riscrivendo tra l’altro lo straordinario mito platonico di Eros (il dio incompiuto, il dio dimezzato, cioè l’uomo alle prese con i suoi desideri più insopprimibili perché i più inappagabili), ma con l’intento di emanciparlo proprio da ciò che lo rendeva così straordinariamente evocativo, cioè dal mito: per farlo diventare ‘reale’, verificabile storicamente, svuotandolo così della sua reale essenza. E si è anche più volte tentato, soprattutto in seguito, soprattutto dopo quel primo esperimento di rivoluzione copernicana abortito però sul nascere che fu il cogito cartesiano, di dare ascolto, di mettersi in sintonia con questa voce che chiedeva sempre più insistentemente di partire dall’uomo per tornare all’uomo, ma più si provava a riappropriarsi di dio in questo modo, più ci si sentiva in colpa per doverlo in realtà mettere da parte: e il suo fantasma – sotto nuove spoglie (i nuovi miti della cosiddetta secolarizzazione) – finì per terrorizzare più di prima. E si lasciò subito la strada maestra appena imboccata per rituffarsi di nuovo nei percorsi tormentosi dei sentieri senza sbocco che attraversano le ‘selve oscure’, timorosi di sostituire un mistero ormai consolidato col quale si conviveva da secoli avendo imparato di volta in volta ad esorcizzarlo, con un mistero troppo inquietante se ricondotto alle sue origini vere: il mistero uomo.
Ora, il mistero sarebbe restato comunque (anzi, si sarebbe ulteriormente consolidato e precisato proprio in quanto mistero), allo stesso modo in cui il sistema copernicano non offrì certamente quel supporto conoscitivo che si sarebbe voluto in grado di diradare una volta per tutte le nebbie che si frappongono fra noi e l’universo… ma chi vorrebbe tornare al sistema tolemaico?…
mentre qui si rinunciò ad alleggerire il cammino – come sarebbe stato possibile liberandosi da tanti ormai sempre più inutili fardelli – perché da tempo immemorabile si vivevano quei fardelli come una seconda pelle: togliersela di dosso, più che alleggeriti, lasciò la sensazione di rimanere scoperti, senza difese.


 

IV

‘Dio è morto’: una metafora controproducente per il pensiero ateo.

Niente più della sua presunta morte ha concorso a mantenere in vita dio. E’ stata la sua presunzione di morte che ha operato di fatto come il più efficace espediente per prolungarne in realtà l’esistenza, per dar voce ai suoi orfani inconsolabili ai quali non è parso vero di gridare intanto ai quattro venti quanto povera fosse diventata l’umanità dopo la perdita di questo valore supremo, approfittando della sua proclamata eclissi per dimostrare come i mali del mondo rifulgessero ora senza alcuna speranza di riscatto… tenendo ben celata la circostanza che gran parte di questi mali era stata provocata proprio dall’alienazione dell’umanità come conseguenza della sua proiezione al di là di sé operata dalle varie religioni. In realtà il riflusso reazionario, consapevole o meno che ne fosse (ma sarebbe accreditarlo di un disegno veramente ‘diabolico’ se l’avesse perpetrato in consapevolezza), ha potuto giocare su un paradosso/assurdità coglibile come tale, come assurdità, solo da una mente non obnubilata dalla paura di se stessa, cioè questo: la ‘morte’ di dio, la sua ‘uccisione’, non ha fatto che confermare la sua esistenza! Non si uccide chi non è mai esistito, e se lo si è ucciso, se si chiamano le folle a raccolta per constatarne la morte, significa che esisteva. E non importa nulla che si sia usata l’espressione ‘dio è morto’ come metafora: chi l’ha usata non ha tenuto nel dovuto conto di come essa venisse a cadere su un terreno dove tutto di fatto era sempre stato solo metafora presa alla lettera, mito ontologizzato, e alla lettera è stata presa anche la morte di dio, la quale pertanto non veniva che a confermare due cose: che dio, appunto, era sempre esistito, e che ora era stato ucciso. Ma la morte di un dio – si argomentò subito – non può che essere apparente, in realtà lo si è ucciso solo nei propri cuori, quegli stessi cuori che ora debbono prepararsi alla sua rinascita, che non può che avvenire dentro di noi… non prima però di aver scontato una pena proporzionata ad un così enorme misfatto! E così, dopo il peccato originale, contemplato in forme diverse da varie religioni, ora c’è da scontare anche il deicidio.
E non tutti gli dei sono comprensivi e caritatevoli, e disposti a lasciarsi uccidere anche se per poi risorgere, come il dio cristiano…

V

‘La religione è l’oppio dei popoli’: un’altra metafora controproducente.

Anche qui si è avuto gioco facile nel ‘dimostrare’ che, fra i tanti oppiacei, quello rappresentato dalla religione dopo tutto era il meno ottundente le coscienze, se solo lo si fosse paragonato all’ottundimento dovuto a tante ideologie, come, ad esempio, il cosiddetto materialismo storico. Oppio per oppio, quello rappresentato dalla religione conservava pur sempre una proiezione in una dimensione di speranza che nessuna proposta di liberazione materiale poteva vantare, o meglio ancora, surrogare: non certo a tempi lunghi … Ma quando si prescinde dalla trascendenza, i cui tempi sono ‘eterni’, cioè al di là di ogni possibile esperienza, i tempi storici, quelli dell’esperienza effettiva, sono sempre insopportabilmente lunghi perché si abbia la pazienza di aspettare più di tanto, e giustamente, una qualsiasi verifica: basta il succedersi di un paio di generazioni e nessun progetto alternativo al paradiso prospettato dalle religioni è in grado di reggere come progetto alternativo, e di fronte al fallimento rappresentato dalla mancata realizzazione del ‘paradiso in terra’, l’esigenza di un oppiaceo ancora più allucinogeno si farà impellente, e se ne reclamerà una razione doppia proprio per far fronte, per sopportare, la nuova delusione che si è aggiunta alle altre.
E anche qui non importa se in realtà, da parte delle menti più avvertite perché più libere, non si è mai esplicitamente promesso alcun ‘paradiso in terra’ (tutt’al più, meno inferno): l’assuefazione all’oppio non tollera brusche astinenze, e se poi addirittura l’ateismo è fatto diventare ‘di stato’, imposto dall’alto, da un potere con tutti i crismi della ineluttabilità metafisica senza nemmeno che possa contare dietro di sé – essendo senza storia – quella lunga tradizione di umanizzazione che ha portato alcune religioni, se non alla disalienazione (che significherebbe la loro totale estinzione), almeno a continui correttivi che hanno tentato di contrapporsi alla strutturale alienazione… se alla crisi di astinenza si aggiunge questa ulteriore dipendenza, il bisogno di dosi massicce di oppio – senza nemmeno quel tanto di distinzione, o di vero e proprio dubbio che da tempo aveva cominciato a serpeggiare fra gli stessi uomini di religione più avvertiti – non poteva che prendere un po’ tutti alla gola.
Ciò che è puntualmente avvenuto per le enormi masse che, consenzienti o meno che fossero, hanno fatto l’esperienza di questa traumatica sostituzione. La disintossicazione può avvenire solo per progressive prese di coscienza, la più necessaria delle quali è forse quella caratterizzata dalla consapevolezza che un qualche ricorso a qualcosa che rappresenti un filtro tra noi e certi aspetti dell’esistenza, tra noi e tutto ciò – che è sempre troppo – che va messo in conto alla fatica di vivere, è comunque indispensabile: pensare di poterne fare a meno è un’illusione altrettanto pericolosa dell’illusione, figlia prediletta proprio di questa fatica (per molti vero e proprio male) di vivere, che per l’uomo si risolverà tutto dando corpo al mito della trascendenza.



VI

Della trascendenza e della falsa immanenza.

La maggior parte delle religioni contempla una dimensione ‘altra’ rispetto all’attivarsi dell’esperienza di una realtà intesa come dato, perché ritiene che proprio questo dato, in quanto dato, non può che rimandare a un datore ‘altro da noi’. Ogni esperienza vissuta in preda alla paura metafisica rimossa (la paura determinata da un male di vivere che suona come assurdo), invece di valere per se stessa, è vissuta come condizionata da qualcosa o da qualcuno che esercita su di noi un dominio reso possibile dal suo trovarsi in una dimensione che non può essere la stessa nostra, perché altrimenti interagiremmo con questo qualcosa o qualcuno condizionandolo a nostra volta.
A questa dimensione altra, in realtà a questo circolo vizioso, viene dato il nome di trascendenza, mentre negarne l’esistenza significa ritenere che invece tutto si giochi su un unico piano di realtà, di cui noi come tutto il resto del mondo facciamo parte, e che in genere viene considerato il piano dell’immanenza.
Ora, alcune religioni, nella forma, che si vuole ‘primitiva’, dell’animismo, o in quella, che magari intende essere fondata anche filosoficamente, del panteismo, sembrano rigettare ogni trascendenza… Ma è proprio così?
Forse nella forma, non certo nella sostanza. Nel momento stesso in cui queste religioni impegnano i loro adepti, tramite rituali appropriati, nella ricerca di un’esperienza alternativa a quella che altrimenti si sarebbe costretti a vivere se non si intraprendesse tale ricerca, cosa fanno di diverso da chi punta a ricondurre tutto alla trascendenza? In altre parole, rispetto a che cosa viene considerata ‘alternativa’ un’esperienza che si dà solo andando al di là di ciò che essa sarebbe per sua natura se non ‘trascendendo’ questa natura stessa? E se – come si afferma da parte dei sostenitori dell’immanenza di tale posizione – non si trascende nulla perché si tratterebbe solo di ‘far emergere’ ciò che c’è in tutto quanto è oggetto d’esperienza, anzi, di ‘far venire alla luce’ una sostanza che si cela sotto una apparenza, quale sarebbe la causa di questo nascondimento?… Il quale oltre tutto, per essere vanificato (in realtà esorcizzato) come tale, richiede rituali così ‘innaturali’, così artificiosi, che se non fossero legittimati da qualcuno, anzi da Qualcuno, che li imponesse, o che comunque li consigliasse come condizione necessaria per la nostra salvezza, sarebbero senz’altro rigettati come assurdi. Chi, o che cosa, ha imbrogliato così maldestramente le carte in modo da rendere necessarie queste pratiche? E perché lo avrebbe fatto? Se non è dato sapere tutto questo, la causa di tutto questo, in che cosa potremmo veramente condizionare la realtà in cui viviamo e non esserne invece completamente condizionati? Insomma, se si finisce pur sempre per parlare di salvezza e di dannazione, e di pratiche per ottenere l’una e per scongiurare l’altra proposte da Qualcuno, che questo Qualcuno sia o non sia ‘tecnicamente’ una divinità, un essere trascendente, che differenza fa? A lui, anzi, a Lui, si riterrà di dovere la nostra salvezza (in realtà la possibilità di esorcizzare il male di vivere che genera la paura di vivere).
Forse per lui, in lui, questa esperienza può anche essere vissuta come non rimandante ad altro che a se stessa, e può anche impegnarsi ad insegnarla, a trasmetterla, come tale, ma è proprio in questo atto dell’insegnare, del trasmettere, che scatta il meccanismo della transitività, cioè del passare da un piano di realtà ad un altro, proprio della trascendenza come momento dinamico: per cui ai discepoli, il Maestro, l’Illuminato, il Guru, lo Sciamano, o comunque lo si chiami, si presenterà sempre con i caratteri della divinità, come dotato di conoscenze e di poteri che, come tali, i discepoli, lasciati a se stessi, non acquisirebbero mai. E che se davvero arrivassero ad acquisire con le pratiche rituali – anche nella piena libertà di scelta di tali pratiche come prevista, ad esempio, in talune varianti dell’induismo – si libererebbero da una dipendenza che però, come dipendenza si tramanderebbe e si perpetuerebbe ineluttabilmente, essendo considerata connaturata alla condizione umana… Per cui occorreranno sempre maestri e discepoli, e non certo per trasmettere saperi di natura tecnica, ma per insegnare – o anche solo per testimoniare, ma per rendere così più efficace, con la testimonianza, l’insegnamento – come si deve vivere, cioè per svolgere quel ruolo che è elemento strutturale di tutte le religioni, che contemplino o no la trascendenza: mantenere da parte di alcuni (in buona o mala fede a questo punto poco importa) una posizione di dominio su altri presentandosi come detentori, diretti o con delega, del segreto della salvezza.

Questa presunta immanenza investe poi, subdolamente, in modo strisciante, quella società che si presume laica, e consiste in realtà nell’escogitare in continuazione surrogati della trascendenza, dotandosi – consapevole o meno che ne sia – di rituali e di sacerdoti sempre nuovi nel tempo storico, che a volte possono essere innegabilmente suggestivi e originali, ma con pur sempre le stesse funzioni, lo stesso ruolo. E così possono essere eletti a nuova casta sacerdotale – a volte a loro insaputa (i casi migliori), più spesso con compiaciuta partecipazione – tutti quanti, dotati (e spesso solo ritenuti dotati, perché è questo che in fondo conta) di capacità creativa, di inventiva, sono in grado di dare corpo, di produrre con la loro attività, ciò che viene identificato come la realizzazione dei sogni e delle speranze di ognuno, ciò che rappresenta il mito oggettivato, reificato, il racconto che si fa cosa, il mitizzato passaggio ‘dalle parole ai fatti’. E ci sarà sempre chi, pilotandone il mercato, li piazzerà come ‘modelli di vita’, ‘esempi da imitare’, in definitiva – pur con tutti i distinguo indispensabili sciorinati per non urtare troppo gli dei ufficiali, tradizionali, e il loro popolo – come divinità da adorare (e anche qui, l’uso che si vorrebbe solo metaforico di espressioni abitualmente usate quando ci si riferisce alla divinità – “sei un dio!”, “facci sognare, facci trascendere!”, “mandaci in paradiso!” e simili – funzionano in realtà nella psiche di chi le pronuncia esattamente allo stesso modo che se fossero riferite davvero ad una divinità). E i nuovi oggetti di culto (artisti, scienziati, politici, anche filosofi, ma poi via via, in età moderna e contemporanea ma in analogia con ogni altra epoca, imprenditori, gente di spettacolo, assi dello sport, compresi gli stessi rappresentanti ufficiali della divinità a loro volta, nel mondo attuale, omologati soprattutto come uomini di spettacolo) troveranno sempre chi organizzerà per loro folle adoranti. Quelle stesse folle che, in questo modo, saranno anche sempre disponibili, non essendo che passive fruitrici, dipendenti per natura, ad osannare il primo imbonitore che si presenti sulla scena a riempire quel vuoto che inevitabilmente la loro sete di trascendenza rimasta insaziata (caso clamoroso in questo senso il rigetto che si va sempre più diffondendo, dopo l’esaltazione inconsulta, di una scienza e di una tecnologia nelle quali si erano indebitamene, ma non certo per colpa loro, investite – visti tanti esiti straordinari – tutte le speranze di salvezza) finisce puntualmente per lasciare.
Vanificando così, anzi, ritorcendole contro se stessi, tante conquiste preziose – soprattutto della scienza – proprio per ovviare ai deleteri circoli viziosi non identificati come tali quando ci si rimette alla trascendenza. Comunque camuffata.



 

VII

Uomo carismatico, o surrogato di dio?

Esistono persone, cosiddette carismatiche, che avrebbero il potere di rendere efficace tutto ciò che dicono o fanno perché, detto o fatto da loro, assume un significato che nessun altro come loro è in grado di rendere significante in modo altrettanto efficace… pur dicendo o facendo le stesse cose! E questo è un dato, si afferma, sempre verificabile nel passato come nel presente. Ma che dato è? O meglio, da chi è dato e cosa è veramente dato?
Intanto, una prima considerazione, e un primo sospetto. L’uomo carismatico è tale perché c’è evidentemente chi ne avverte il bisogno, ne sente l’esigenza, e quindi lo cerca, lo attende, e – si dice – l’uomo dotato di carisma è tale proprio perché è colui che risponde a questa attesa, che soddisfa questa esigenza… ma – ecco il primo sospetto, che è un sospetto di circolo vizioso – è l’uomo carismatico che incarna le attese, o è l’attesa che ‘produce’ l’uomo carismatico?
Ma questo non avrebbe importanza, perché ciò che conta sarebbe, è, l’incontro tra l’attesa e la risposta all’attesa, cosa possibile in ogni caso perché compare l’uomo dotato di carisma, di contro a tanti altri uomini che invece, non avendo carisma, non possono rendere possibile questo incontro…
Ma non potrebbe essere che l’uomo che si rivela dotato di carisma sia proprio colui che, non attendendo niente, si rende disponibile ad essere l’atteso, mentre tutti gli altri che sono in attesa si autoeliminano come il possibile atteso? Già – si risponderebbe alla nuova obiezione – ma proprio questa ‘disponibilità’ lo rende in qualche modo unico, carismatico. Solo lui è in grado di esprimere con le sue parole, con i suoi atti, quella forza, quella determinazione, che gli altri, i molti altri, i più, hanno esaurito – nel senso di averle tutte riposte – nell’attesa. Chi ‘attende’ sospende in un certo senso tutte le sue facoltà, si proietta totalmente al di fuori di sé, non ascolta più se stesso, aspetta solo indicazioni, aiuti, rinforzi, dall’esterno; chi ‘non attende’ probabilmente lo fa perché sta ascoltando solo se stesso e trova in se stesso la risposta, e una risposta che evidentemente lo convince e lo soddisfa. Da qui la sua forza, il suo carisma …
E a questo punto il sospetto di circolo vizioso, proprio in seguito a questi sforzi per aggirarlo, invece di attenuarsi, si rafforza: basta spostare l’attenzione su che cosa è oggetto di attesa, di ricerca, di esigenza, e che si ritiene di trovare nell’uomo carismatico. Cos’è infatti veramente ciò che si attende? In realtà non si sa: l’attesa, la vera attesa, consiste soprattutto nell’attendere di sapere che cosa veramente si sta attendendo; se così non fosse, se lo si sapesse, non lo si aspetterebbe in questa sorta di sospensione delle proprie facoltà, ci si metterebbe alla ricerca ‘in proprio’, con le proprie risorse, con la determinazione comunque legata al ‘sapere ciò che si vuole’; e sarebbe solo una questione di maggiore o minore disponibilità di mezzi da adeguare ai fini, da prendere dove sono, in noi o in altri, ma senza deleghe, senza attese. Se così non è, è perché in realtà si sta cercando qualcosa, o qualcuno, che dia un senso al proprio cercare, cioè, poi, alla propria esistenza…
E qui il circolo vizioso, da sospetto sempre più fondato si fa certezza: c’è l’esigenza di qualcosa che si va cercando, ma lo si ricerca proprio perché non si sa di cosa si tratti, per cui non si potrà mai sapere quando lo si trova, quando lo si incontra… o almeno, non si potrebbe, perché si è, ci si trova, nella condizione di non saperlo mai.

E invece ecco che l’incontro si ritiene avvenga, sotto forma di ‘illuminazione’: che consiste nel sentirsi dire, o nel veder compiere… che cosa? Ciò che ‘dentro di noi’ sapevamo da sempre, ma che nessuno ci aveva aiutato a riconoscere, a identificare. Per cui l’uomo carismatico viene ad essere colui – anzi occorrerà cominciare a considerarlo e chiamarlo Colui – che finalmente ci permette di afferrare ciò che andavamo cercando senza sapere cosa, è quell’essere straordinario che opera la cosa più straordinaria: ci fa ritrovare, o trovare per la prima volta, noi stessi!…
Ma allora viene da riprendere la domanda iniziale, anche se un po’ modificata, e decisamente, ormai, domanda retorica: l’uomo carismatico, esiste per se stesso, o siamo noi che lo facciamo esistere? L’atteso, il messia, chi è, cos’è, se non la nostra esigenza di sapere chi siamo e perché? E se qualcuno – per una qualche ragione del tutto imponderabile, ma comunque non certo perché ha ciò che noi non abbiamo e che andiamo cercando, dal momento che era già dentro di noi – ci si para di fronte come uno specchio, e quindi ci permette di vedere noi stessi, non è che in realtà sia solo una proiezione di noi stessi? Ma la partita è tutt’altro che chiusa (e l’uomo carismatico tutt’altro che liquidato) perché – si potrà sempre obiettare – riconosciamo pure che l’altro siamo solo noi stessi riflessi, ma perché questo autoriconoscimento avvenga, occorre lo ‘specchio’, occorre cioè qualcosa o qualcuno che abbia questo ‘potere riflettente’, dono divino o di natura che sia, cui si dà, appunto, il nome di carisma.
E qui sta l’abbaglio maggiore, il circolo vizioso nel momento di maggiore contorcimento, che poi è il momento di maggiore alienazione: proiettiamo noi stessi al di fuori di noi e poi ci mettiamo in ascolto e adorazione di questo noi stessi come se fosse un altro, perché in effetti è un altro, cui deleghiamo forza e potere, perché lui ha prestigio, ascendente, fascino, insomma, carisma. Ma questo non è altro che il meccanismo psicologico che – come il pensiero ‘materialista’ ha sempre denunciato, per abbandonare però la denuncia appena si esce dall’orizzonte propriamente teologico – sta alla base di ogni ricorso alla trascendenza: quando il carisma di un nostro simile si rivela troppo al di sotto delle nostre esigenze, di fatto senza limiti, proiettiamo noi stessi al di là di questa dimensione che sta così stretta al nostro desiderio e così contrassegnata invece dalle nostre paure, cioè proiettiamo noi stessi, appunto, nella trascendenza, un posto al riparo da troppo facili smascheramenti, e dove collocare noi stessi può attenuare gran parte delle nostre angosce esistenziali. Ma il primo passo per questo approdo è il credito dato all’uomo carismatico.
Un’ultima questione, per niente marginale, anzi: ma lui, l’uomo carismatico, sia pure per evocazione, esiste? O meglio, sa di esistere (in realtà di essere fatto esistere) come tale? Paradossalmente (come sosteneva Hegel, sia pure in tutt’altro contesto, dicendo che i cosiddetti individui cosmico-storici, quelli ‘che fanno la storia’, sono solo strumenti inconsapevoli dell’Astuzia della Ragione) se lo sapesse, e quindi si studiasse di calarsi nel ruolo, non lo sarebbe più, perderebbe il carisma. Perché il carismatico deve solo ‘essere per altri’ (uno specchio, appunto), non per se stesso, e qualora riflettesse su se stesso non sarebbe più ‘utilizzabile’ dagli altri, passerebbe pure lui dalla parte di chi aspetta di sapere cosa veramente deve fare. Quindi, colui che riceve da noi la delega per risolvere parte, o anche tutti, i nostri problemi perché gli riconosciamo i poteri (il carisma) per farlo, se davvero lo volesse fare svaporerebbe da quel fantasma evocato che è, e resterebbe solo la possibilità, tutt’altro che teorica (chi ha fatto più danni nella storia dell’umanità degli ‘uomini della provvidenza’?), che invece il fantasma si materializzi come puro uomo di potere.
Che gli avremmo dato noi, e che è della stessa natura che si ritiene sia il potere di cui dispone la divinità ma che in realtà consegniamo senza contropartita nelle mani dei suoi cosiddetti rappresentanti in terra.

 

 

 

 

VIII

Il ‘mito della caverna’ platonico: metafora somma, somma ambiguità

Che Platone la ritenesse tale o meno (la sua straordinaria ambiguità, cioè le sua illimitata provocante ricchezza, rende legittimo ogni saccheggio, anche delle più ipotetiche intenzioni del suo autore), si tratta forse del prototipo di tutte le metafore, cioè del nucleo originario di tutti i miti, almeno della mitologia ‘colta’ occidentale. Intanto, come in tutte le metafore, si tratta di una similitudine che ha la sua radice – come l’intero impianto narrativo platonico consapevolmente illustra – nel mito: cioè nel racconto, cioè nella parola. Ma il ‘mito della caverna’ è anche, anzi, vuole essere esplicitamente, una allegoria, cioè una metafora ‘spiegata’, ‘tradotta’…
Ed è qui che cominciano i guai, o comunque le conseguenze più controverse, perché il passaggio ulteriore dalla allegoria alla parabola – cioè ad un racconto dove l’analogia per tanti versi lascia il posto alla vera e propria affinità, intende identificarsi senz’altro con la cosiddetta realtà, e comunque l’invenzione vi è considerata una minima concessione alla immaginazione per contrabbandare una moralità, un modello di vita da seguire – è il rischio presente in ogni spiegazione, in ogni traduzione.
Si potrebbe dire in ogni insegnamento, a cui per altro proprio Platone per primo non si sottrae certo, anzi, lui per primo identifica nell’insegnamento – e quindi vi dispiega tutta la sua grande passione – la vera missione del filosofo. Che deve essere, prima di tutto, Maestro… cominciando così a erodere dalle fondamenta, lui per primo, lo straordinario edificio che era andato costruendo. Ora, forse lui, Platone, non poteva fare diversamente, questo era il prezzo che doveva pagare, la passione cui doveva sottostare per trarne la forza necessaria a reggere una così potente visione, e in ogni caso lasciando sempre la possibilità di ricavarne – del tutto indirettamente, anzi proprio e contrario – l’insegnamento complementare, quello più utile, e cioè che niente è più pericoloso per l’uomo dell’ontologizzare, del dare esistenza non solo virtuale, alle visioni provocate dalle proprie esigenze. Reali come esigenze, ma che l’uomo può soddisfare solo rendendole identificabili a se stesso come tali, come esigenze, e cioè descrivendole, parlandone, raccontandole, mitizzandole consapevolmente. Ciò che ha salvato – fino ad ora – l’umanità da un’autodistruzione procurata dai reiterati tentativi di dar corpo alle ombre costituite dalle sue esigenze, è solo la riserva di dubbio (scaturito dal provare a descrivere parlandone, cioè dal raccontare a se stessi cosa in realtà si è veramente prodotto confrontando in tal modo il dato oggettivo con l’esigenza, l’oggettività che precede il dato stesso) che alcuni uomini più di altri (ma in una certa misura tutti gli uomini, nella misura in cui sono stati capaci di ri-pensamento) sono riusciti a non esaurire spendendo tutto in opere, in fatti, in utopie realizzate. Ci ha salvati quel tanto di mito che, più o meno consapevolmente, si è riusciti a conservare come tale, per quello che è e che non può che essere.

Ma che mito è quello ‘della caverna’? Perché tra l’altro, e giustamente, è stato subito identificato, almeno nella cultura occidentale, e comunque dai filosofi, come il mito più intrigante? Perché – come a più riprese, e sia pure traendone le conseguenze più disparate, è stato riconosciuto – vi si illustra l’uomo alle prese col ‘problema’ costituito dalle sue conoscenze e dal suo destino di essere dotato di coscienza: coscienza e conoscenze che per altro non può in nessun caso illudersi di non avere, fingere di non avere… mentre il desiderio inconscio di annullarle, di non tenerne alcun conto per quanto di doloroso sempre trascinano con sé, può portarlo ad utilizzarle – potenziandole ben oltre il loro reale potere – contro se stesso. Proiettandolo al di là di se stesso.
Cos’è infatti un percorso di conoscenza come quello illustrato nel mito della caverna, se non un viaggio faticoso intrapreso seguendo il trapelare di una luce che, una volta venutisi a trovare veramente al suo cospetto, non fa altro che abbagliare e offuscare ogni conoscenza comunque conseguita?: da quella povera, sommamente ingannevole, dello schiavo incatenato al fondo della caverna, a quella via via sempre più apparentemente piena, definita, dovuta ad una progressiva liberazione, alle tappe di una faticosa risalita, e che poi invece una luce insostenibile, quella del Bene, della Verità, cioè del Desiderio allo stato puro, in sé, rigetta nella tenebra, nella confusione. E allora il filosofo che la attinge, che dovrebbe attingerla, in realtà non sa cosa fare, cosa farne, e se è onesto con se stesso non gli resta che riguadagnare – ancor più faticosamente perché adesso sarà accompagnato anche dal rimpianto e dalla delusione, là dove prima c’era ancora a sospingerlo la speranza – la possibilità di ‘rivedere’ le cose come le vedeva prima. Certo, il filosofo, l’amante del sapere comunque, ha acquisito così la consapevolezza di quanto ingannevoli siano quelle conoscenze, ma è pur sempre con quegli inganni, con quei simulacri di verità, con quelle ombre di cui non conoscerà mai di che cosa sono ombre se non il fatto che a produrre ombre, come gli dice l’esperienza, non può essere che una luce (quella che lo ha sospinto nella ricerca), che avrà a che fare… E qui, per rifarsi della delusione o per ‘sfruttare’ comunque la carica di energia che il desiderio ha liberato, può anche inebriarsi di questa consapevolezza (travisando in parte quanto gli aveva trasmesso il maestro Socrate), immaginare di avere così strappato il velo che stava celando ciò che tutti stavano cercando di vedere, immaginare in questo modo l’esistenza di un piano superiore di realtà, di una dimensione trascendente in cui sono eliminati tutti i lacci che ci costringono al suolo, che ci obbligano a circoscrivere il nostro cammino più o meno sempre nei paraggi della caverna… ma – come hanno fatto tutti i viaggiatori che hanno inteso seguire fino in fondo la propria immaginazione, quale che fosse la piattaforma di partenza – sempre e solo ‘in negativo’, cioè ritagliandolo sul mondo dell’esperienza, ha potuto parlare e illustrare il mondo che ha incontrato cercando di trascendere l’esperienza: un mondo meraviglioso, ma volendo liberare il più possibile questa meraviglia da tutto ciò che in qualche modo avrebbe rischiato di far ricadere nel risaputo, nel ‘non meraviglioso’, si è trovato con niente in mano, solo con la metafora di ciò che aveva talmente sperato di vedere, che può portare a vedere solo ciò che si è sperato di vedere, cioè un mondo puramente virtuale, ‘vero’ solo come potenzialità. Reale come sono reali i sogni, che sono reali solo perché reale è il sognatore con la sua facoltà, ed evidentemente bisogno, di sognare.
E tutto ciò che può veramente dire se non vuole ingannare se stesso e gli altri ai quali intende raccontare le vicende del suo viaggio, è dire che non ha trovato niente più che il suo desiderio di trovare, e che prima di tutto, come premessa di un racconto per altro indispensabile, assolutamente necessario, assolutamente vitale, e per non farlo invece diventare mortale canto di sirene, questo deve comunicare: che non può insegnare niente in merito a ciò che lui stesso e gli altri che lo stanno ascoltando avrebbero voluto conoscere, e che può solo testimoniare della sua avventura…
E a ben vedere Platone, nella sua ‘spiegazione’ dell’allegoria, stabilisce sì dei gradi della conoscenza, dice certamente che esiste una gerarchia del conoscere, e che questa gerarchia trova il suo vertice, e quindi la causa della scala gerarchica stessa, in un mondo delle idee di cui il mondo dell’esperienza è solo una copia imperfetta, ma non necessariamente, e utilizzando proprio lo stesso suo impianto, se ne deve ricavare la teoria di una duplicazione della realtà: basta intendere il tutto come metafora, come racconto, come mitopoiesi. Basta intendere ‘il mondo delle idee’ come lo intenderebbe il più scontato senso comune, cioè come un mondo puramente ‘pensato’, fatto appunto di idee, evitando però nel contempo di cadere nell’ancor più scontato luogo comune (anzi, come tale sinonimo proprio di scontato) che a questo mondo ‘soltanto pensato’ se ne possa e se ne debba contrapporre uno invece ‘reale’: che paradossalmente finisce poi per essere quasi sempre proprio quello della trascendenza! Comunque intesa e comunque camuffata.

Tirando le somme. E’ indubbio che il discrimine tra il raccontare e l’insegnare è arduo da individuare, e tanto più quanto più il Maestro (come il più ‘maestro’ di tutti: Platone) si infervora nel suo racconto e crede sinceramente nel proprio insegnamento, ma almeno due cose non bisognerebbe mai fare nell’ascoltarlo: per un verso prendere alla lettera ciò che dice e trarne indicazioni categoriche su cui modellare più o meno meccanicamente, cioè ritualmente, la propria esistenza; oppure, per il verso opposto, bollarlo senz’altro – come è stato fatto – di ‘poeta mentecatto’ nella presunzione che possa esistere da qualche altra parte un racconto veritiero in quanto in grado di ‘dire’ ciò che ‘quel’ maestro non ha saputo dire. Come puntualmente è accaduto a Platone…
In questo secondo caso, ancor più che nel primo, si rischia di dare corpo a nuove ombre che ora non sarebbero nemmeno il risultato di una visione, vera quanto meno come visione. Come metafora di se stessa.



 

IX

Un mondo senza dio può cominciare ad essere intanto un mondo senza diavolo (che è l’ombra di dio, cioè l’ombra di un’ombra).

Per cominciare ad uscire da quello che sotto troppi aspetti può diventare (come storicamente spesso è diventato… e sempre più diventa a dispetto di tanti conclamati ‘progressi’) un inferno reale, occorre cominciare ad uscire da un paradiso fittizio, alla cui illusoria costruzione spesso, certo involontariamente, ha contribuito anche il tradizionale pensiero ateo. Uscire da un paradiso dove nessun uomo è mai stato, ovviamente, ma la cui pura evocazione, proprio per questo, rende spesso infernale l’esistenza ‘terrena’: la quale, nella sua consistenza, non può reggere il confronto con l’inesistente, un confronto che porta all’assurdo di concentrare tutti gli sforzi per perdere questa consistenza in modo da avvicinarsi il più possibile all’inesistente. Quell’inesistente dove, in quanto inesistente, in quanto puro nulla, c’è spazio per tutto, soprattutto per collocarvi un’esistenza liberata di ogni dolore, liberata della fatica di vivere… E così, per inseguire un’ombra, si getta nell’ombra ciò che produce l’ombra stessa, cioè se stessi. Come?
Cercando con tutti i mezzi di abdicare alla propria condizione di esseri pensanti, avendo identificato nella coscienza, meglio, nell’autocoscienza, il vero nemico, quello che costringe a ‘sapere’ di un nostro destino che – anche per il solo fatto di saperlo, di esserne consapevoli tanto più quanto più lo scrutiamo, togliendoci così anche la sorpresa, cioè la speranza – non ci piace. “Annulliamo la coscienza” – ci consigliano ad esempio certi campioni di spiritualità – “e così approderemo ad un qualche nirvana”… oppure, ci suggeriscono, in modo opposto ma solo apparentemente, i sistematori di realtà, i costruttori di mondi: “Togliamo alla coscienza tutti gli spazi in cui si attarda a pensare se stessa, ripuliamola di tante inutili perplessità, di tanti dubbi frustranti, e così rigenerata, utilizziamola per creare ‘il migliore dei mondi possibili’!”: nell’un caso e nell’altro si crede di avvicinarsi sempre più al modello ideale, anzi, si crede di prepararne una anticipazione. “E – gli uni e gli altri possono anche dire espressamente, o solo suggerire, o lasciare comunque intendere – chissà che in questo modo non si possa anche fare a meno di puntare sulla trascendenza!”… una trascendenza nei confronti della quale in fondo, non avendone mai fatto reale esperienza, una parte non ascoltata, rimossa, ma presente negli stessi suoi sostenitori, nutre tutti i dubbi possibili…
Tragico equivoco! Soprattutto perché, ancora una volta, viene sprecato un giusto sentire, o comunque una possibilità da tenere sempre aperta (‘fare a meno della trascendenza’), non tanto provando davvero a farne a meno, ma cercando di sostituirla con una quasi sempre autolesionistica imitazione… E autolesionistica per forza: come si può ‘imitare’ il nulla? E proprio il nulla d’esperienza, non il nulla ‘metafisico’? Volendo imitare ciò che non si conosce, e che quindi per noi non c’è se non come esigenza, si finisce inevitabilmente per imitare senza saperlo ciò che invece comunque c’è, se non altro come soggetto desiderante: cioè se stessi. E proprio quel se stessi che ‘non piace’, e che proprio per questo si voleva ‘annullare’…
Per cui non si fa altro che avviare una spirale perversa di tentativi fallimentari il cui esito, a dispetto di tanti proclamati trionfi (della ‘pienezza dell’esperienza mistica’ da un lato e dell’‘homo faber’ dall’altro), è il gettare intere popolazioni nella disperazione che corona sempre ogni alienazione. Volendo esaltare la vita alzandola oltre se stessa, si lascia completamente via libera all’‘istinto di morte’, che è il vero traguardo di qualsiasi processo che intenda ‘trascendere’ la vita, che non intenda tener conto di ciò che la vita, comunque, reca sempre con sé, a dispetto di tutti i nostri esorcismi: la morte. Se si rimuove la morte, essa agisce tanto più quanto più non ci si rende conto che tutto ciò che stiamo facendo lo facciamo solo per esorcizzarla. E così si assiste a intere moltitudini che, tra un superstizioso ossequio di ogni scadenza religiosa (i rituali propriamente religiosi, e quelli ‘laici’, non meno vincolanti) e l’altro, trovano il tempo per lasciarsi trascinare nella più spietate violenze per i più futili motivi. Quale guerra, quale conflitto dichiarato, quale violenza organizzata comunque esercitata sui propri simili – tutto quanto in altre parole ha costituito e costituisce una assurda coda alla già assurda fatica di vivere – è stato perpetrato per motivi che, col solito senno di poi, possono reggere veramente alla più semplice delle valutazioni, quella operata col cosiddetto buon senso, o ragionevolezza che dir si voglia?… mentre tutto questo viene legittimato quando i motivi addotti, invece di essere valutati per quello che sono, cioè vuote parole senza senso, sono fatti risalire alla necessità di soddisfare ‘concretamente’ esigenze giudicate irrinunciabili…
e per far questo, per far digerire questi insensati misfatti – e insensati proprio perché vanno contro il più ovvio buon senso, quello che è in dotazione di ogni uomo che pensa, purché pensi, purché si dia il tempo, si prenda il tempo, per pensare, soprattutto purché non venga espropriato, o si lasci espropriare, della facoltà di pensare – ci si mettono davvero in tanti:
- quelli che parlano di ‘valori irrinunciabili, da difendere anche con la vita’, che poi si scoprono essere entità astratte, tipo Dio, Patria, Famiglia e tutto quanto istituzionalizza una Tradizione che la maggior parte delle persone si trova imposta, e tanto più astratta, tanto più imposta, quanto più sacralizzata, fatta assurgere a valore assoluto, cioè tale che chi la rappresenta, cioè poi la sua sola visibilità possibile, viene a sua volta sacralizzato… e il sacro, si sa, esige sacrifici, esige che gli si sacrifichi qualcosa o qualcuno, magari con una purificatrice guerra santa;
- quelli che parlano di ‘lottare per un mondo migliore’, ritenendo anche qui non solo legittimo, ma doveroso sacrificare chiunque ostacoli questa prospettiva, valida ovviamente solo come prospettiva, cioè come luogo che ancora non c’è, che sfuma in una lontananza in cui nessuno dei fautori del mondo migliore è mai stato per poter dire che sarà veramente un mondo migliore (qualche volta, dopo che la lotta ha reso possibile ‘realizzarlo’, sarà stato per certi aspetti anche migliore, ma quasi sempre a prezzi insostenibili per i più, e in ogni caso mai in modo sufficiente per eliminare l’esigenza di un mondo ‘ancora migliore’, cioè poi ‘veramente’ migliore), vanificando così il beneficio che il racconto di un mondo migliore, non certo la sua realizzazione, può effettivamente arrecare, aiutare veramente a vivere nel solo mondo di cui ci è dato fare esperienza, e che il sacrificio della vita, e per la verità qualsiasi sacrificio imposto, anche di uno solo, esclude da ogni possibilità di miglioramento;
- quelli che parlano di una natura umana che – o perché ci fu un peccato originale, o perché la natura è così matrigna proprio con l’uomo – rende inevitabili queste manifestazioni di homo homini lupus, che non cesseranno mai, almeno nel tempo storico, cioè il tempo dell’uomo reale, mentre si può solo sperare, o in un’altra dimensione in cui l’uomo possa vivere finalmente mondato dalla sua colpa (che è poi la colpa di esistere… per cui morire e far morire è comunque aprire la possibilità di vivere veramente!), oppure in una mutazione genetica del tutto casuale, del tutto imprevedibile operata da questa stessa natura che, per virtù propria, non certo per i nostri sforzi, forgerà un uomo diverso, un uomo nuovo. Nel frattempo l’uomo non può opporsi alla natura umana, cioè alla propria natura, per cui, non espiare questa colpa o non esercitare questa naturale aggressività, magari con una bella guerra, sarebbe… andare contro natura. E questo è forse il circolo vizioso più insensato, irragionevole, autolesionista, in cui l’umanità si trova impantanata: per non andare contro natura, si va contro se stessi!;
- quelli che parlano dei conflitti, delle guerre, delle lotte, comunque motivate e condotte, come della condizione necessaria perché l’umanità progredisca davvero, perché solo se continuamente stimolato l’uomo dà il meglio di sé, sprigiona tutte le energie di cui dispone e se ne carica di nuove, aguzza l’ingegno e migliora indefinitamente il suo stare al mondo… Ora, anche resistendo alle facili ironie che, semplicemente gettando uno sguardo appena appena libero alle vicende storiche, si affollano nella mente, e accreditando questo discorso di un puro intento provocatorio, da intendere solo in senso metaforico (fingendo di credere che ‘la guerra sola igiene del mondo’ sia stato solo un slogan immaginifico senza reali conseguenze), è difficile immaginare una lotta, per simbolica che sia, che non comporti dei vinti e dei vincitori, dove la condizione di vinti aguzzerà sì l’ingegno, ma solo per trasformare i vinti a loro volta in vincitori e quindi puntando solo a creare nuovi vinti, infischiandosene bellamente del progresso dell’umanità, delegato per la verità quest’ultimo all’intervento di una Astuzia della Ragione e di una Mano Invisibile che non possono che operare al di sopra di tutto e di tutti, nel solito luogo che l’uomo reale, l’uomo storico, cioè ogni individuo nell’arco della sua esistenza, non abiterà mai né mai conoscerà;
- in definitiva tutti quelli che, per poter abitare in qualche paradiso fittizio, inesorabilmente virtuale, ritengono legittimo pagare, e più spesso far pagare, qualsiasi prezzo: e quanto più vedono allontanarsi tale prospettiva, invece di distogliere una volta per tutte lo sguardo da questo vuoto abbagliante, moltiplicano gli sforzi e alzano il tiro, che paradossalmente – ma non poi tanto – consiste nel voler creare a tutti i costi dei paradisi in terra, degli Eden strappati alla trascendenza.
Impresa autolesionista più di ogni altra, come si diceva, perché fino a che, bene o male, si punta davvero alla trascendenza, un margine di impotenza e di imperfezione in tutto ciò che l’uomo elabora e realizza, lo si riconosce, e non si pretende di eliminarlo qui, in questo mondo (anche se questo poi viene contrabbandato per ‘realismo’, diventando in realtà la madre di tutti i cinismi e di tutte le ipocrisie, con massima istituzione in tal senso la Chiesa Cattolica), mentre invece quando si trasporta la trascendenza nel mondo dell’esperienza, qualsiasi esperienza aspira a trascendere se stessa. In effetti, il ‘dio che si fa uomo’ diventa, può diventare, più pericoloso di un ipotetico dio che resta dio… ma questa seconda ipotesi in realtà non si darà mai: essendo il dio una creatura dell’uomo, non può restare a lungo lontano da lui, e non ritornerà a lui negandosi, uscendo di scena, ma al contrario ritornerà invadendo completamente la scena, operando nella sola dimensione che veramente gli è propria, quella in cui ha avuto origine, cioè nella psiche umana. Devastandola nel condannarla a continue forme di superstizione se non si farà lo sforzo per liberarsene veramente.
E’ vero che l’ombra di Buddha può diventare, ed è diventata, più nefasta del Buddha stesso (nel senso che Buddha, come Cristo e altre figure simili, come figure storiche, cioè come uomini che hanno lasciato qualche testimonianza, diretta o indiretta, di sé con scritti o altro, possono anche, sia pure con qualche rischio, essere liberati dal mondo di ombre in cui si sono, o sono stati, cacciati, e magari anche gratificare con la loro testimonianza), ma l’uomo moderno, l’uomo che ha provato meritoriamente a togliere di mezzo dio, non può soggiacere più di tanto ai sensi di colpa, che sarebbe controproducente negare abbiano accompagnato e accompagneranno forse chissà ancora per quanto, questa operazione, ma che non possono vanificare l’unico vero sforzo per tagliare alla radice la pianta velenosa dell’alienazione, i cui frutti consistono nel procurare sofferenze aggiuntive per sfuggire alla sofferenza, alla fatica di vivere…
I sensi di colpa non vanificheranno lo sforzo se si farà di tutto per farli venire a coscienza, se non saranno rimossi, se si cercherà di capire, di riflettere sulle vere cause del loro insorgere.



X

Religione, metafisica, bisogni (e l’‘ombra’ di Nietzsche).

Il bisogno metafisico non costituisce l’origine delle religioni, come vuole Schopenhauer, ma soltanto un loro tardivo germoglio. Sotto il dominio di pensieri religiosi, ci si è abituati alla rappresentazione di “un altro mondo (retro-, sotto-, e sovrastante)” e nell’annientamento dell’illusione religiosa si avverte un senso spiacevole di vuoto e di privazione – è da quest’ultimo sentimento che rigermoglia così “un altro mondo”, ora non più religioso, ma soltanto metafisico. Quel che tuttavia, nei primordi, indusse ad ammettere comunque un “altro mondo”, non fu un impulso e un’esigenza, ma un errore nell’interpretazione di determinati processi naturali, una confusione dell’intelletto.” (F. Nietzsche – Dell’origine delle religioni, da La gaia scienza, Libro III, aforisma 151).
Dunque, “nei primordi” il porre “un altro mondo” sarebbe dovuto a “un errore nella interpretazione di determinati processi naturali, una confusione dell’intelletto”… dal che si deduce che se ‘nei primordi’ si fosse stati un po’ più ‘scientifici’ nell’interpretare i processi naturali nessuno sarebbe stato “indotto ad ammettere comunque” una dimensione trascendente. Ed è un vero peccato che tutto ciò abbia poi generato il tardivo germoglio del bisogno metafisico, tanto più peccato per noi, oggi, che possiamo constatare come la ricerca scientifica abbia perlomeno permesso di superare, certo non tutte (anzi, quando la ricerca scientifica si è sviluppata coerentemente coi suoi presupposti razionali, ai tanti ‘misteri’ svelati se ne sono aggiunti sempre di nuovi in precedenza nemmeno supposti), ma certamente molte ‘primordiali confusioni dell’intelletto’ circa i processi naturali. Se nel frattempo non fosse sorto questo bisogno – dovuto al “dominio di pensieri religiosi”, che però sarebbero, come tali, ‘innocenti’ nei confronti della metafisica – il progresso scientifico ci avrebbe preservato da questo salto nel buio, da questa fuga in avanti che sembra anche, paradossalmente, una fuga dai pensieri religiosi in quanto ci avrebbe proiettato in “un altro mondo, ora non più religioso, ma soltanto metafisico”. Per cui, la religione come viene praticata oggi, il riferimento che essa fa continuamente ad altri mondi, sarebbe solo manifestazione di un bisogno metafisico indotto che come tale resisterebbe a qualsiasi demitizzazione operata dalla scienza, messa anzi al servizio essa stessa di questo bisogno metafisico…
Tesi quest’ultima da condividere come tale, come denuncia di ciò che storicamente è accaduto, ma considerata qui effetto finale di un’altra tesi in relazione alla quale resta da capire che cosa abbia provocato quell’“annientamento dell’illusione religiosa”, che poi ha portato a riconsiderare in termini ‘metafisici’ l’‘altro mondo’, se non lo spirito scientifico, quello inteso proprio ad affrontare certe ‘confusioni dell’intelletto’; così come resta da capire in cosa consistesse l’illusione religiosa in quanto illusione. In altre parole, l’‘altro mondo’ pre-metafisico si sarebbe formato illusoriamente per, diciamo così, carenze scientifiche, ma quando certe acquisizioni della scienza l’hanno messo in crisi, o comunque hanno messo in discussione la necessità di questi ‘altri mondi’, si sono per così dire ‘ripuliti’ i vari Olimpi e ci sono stati riconsegnati vuoti, deserti, ma proprio per questo angoscianti: ‘un altro mondo non più religioso, ma soltanto metafisico’, afferma, con definizione indubbiamente efficace, Nietzsche.
Ora, si tratta di una ricostruzione in tanti punti veramente illuminante, ma anche con tali forzature e contorcimenti in altrettanti passaggi da alimentare, ad una lettura un po’ meno accondiscendente, il sospetto, e più del sospetto, di un sostanziale circolo vizioso; e tanto più vizioso quanto più evitabile, ma soprattutto quanto più equivoco proprio nei confronti di una incisiva critica alla religione. Religione che – come spesso avviene in Nietzsche – è sì da superare in quanto illusione fuorviante, ma che – questo come altri autoinganni – avrebbe in origine una sorta di innocenza persa poi per strada per colpa… Già, per colpa di che cosa?
Ma vediamo questa presunta innocenza originaria, tale in quanto non condizionata da alcun impulso, da alcuna esigenza, aurorale espressione di una natura umana ancora integra, diretta, nelle sue manifestazioni… e però che dà vita ad un mondo illusorio, anche se costituito di illusioni di cui ci si poteva tranquillamente nutrire perché frutto di rappresentazioni con le quali si conviveva, appunto, con naturalezza, prodotto spontaneo di un lavorio della mente che serviva direttamente per vivere. Insomma, questo ‘altro mondo dei primordi’ aveva, sembra a noi oggi avere, tutto l’incanto di una invenzione favolistica… e però era frutto di ‘errore’, di una ‘confusione dell’intelletto’! E non rispondeva ad alcuna esigenza! Questo si chiama mitizzare il mito, operazione ridondante se mai ce n’è una, quando non favoleggiamento di una età dell’oro mai esistita. Mai esistita, ma, ecco il punto, sempre desiderata!
Ora, come è possibile separare il desiderio dal bisogno? Nietzsche lo fa si può dire strutturalmente, e comunque vede in questa separazione una sorta di liberazione del desiderio da una dipendenza, quella appunto dal bisogno, che ne comprometterebbe tutta la carica di felice energia che è in grado di sprigionare: nobile intento, certamente, se non fosse che in questo modo contribuisce involontariamente ad alimentare l’illusione dell’esistenza – poi dispersa non si capisce bene perché – di una condizione umana, storicamente verificabile e quindi possibile, non caratterizzata dal bisogno, ma solo dal desiderio… Un vero Eden! Ed è alla perdita di questo Eden che Nietzsche imputa l’’annientamento dell’illusione religiosa’, cioè l’inaridimento dovuto – ecco la contraddizione, il circolo vizioso di cui si diceva – al superamento di un errore…
Come tutto invece sarebbe stato più semplice, più lineare – e in questa linearità avrebbe assunto ben altra evidenza, ben altra luminosità, diciamo pure ben altra ‘verità’, quella verità per altro innegabile che le antenne di Nietzsche, così sensibili, gli hanno permesso di captare, e cioè di avere a che fare con un ‘altro mondo’ ‘ora non più religioso ma soltanto metafisico’ – se solo avesse accettato ciò che si premura subito di smentire come origine di tutto: il bisogno metafisico. In realtà intendeva distruggere, come si diceva, ogni dipendenza dal bisogno, ricreando però così, facendo così ‘rigermogliare’ proprio lui, un mondo fittizio, un mondo illusorio, che certamente non si può pensare, proprio in quanto esigenza, di rimuovere, di evitarne l’evocazione, ma che non per questo è possibile toglierlo dalla sua dimensione mitologica. E se questo mondo non più religioso ma soltanto metafisico è indubbiamente più povero, non è per la mancanza della illusione religiosa, ma proprio per l’incapacità di considerarla per quello che è, cioè l’espressione di un bisogno, di una esigenza, destinati a restare sempre tali proprio perché inappagabili: se non si entra in questo ordine di idee, basta davvero poco per soffrirne la perdita di fronte alla constatazione della sua inconsistenza che qualsiasi verifica un po’ spregiudicata – tipo la pratica scientifica – non può che evidenziare, e basterà ancora meno per cercare subito di riempire questo vuoto con qualche altra illusione apparentemente più affidabile. Per esempio, con una scienza a sua volta sacralizzata.
O con un ritorno in forze di miti e leggende riesumati nella loro veste peggiore: come spie di ‘un altro mondo’ reale, di un presunto mondo ‘parallelo’, realmente esistente su un altro piano di realtà.



 

XI

Religione e scienza come possibili avversari-alleati…

come quei fratelli in continuo litigio tra di loro che però in realtà non possono fare a meno l’uno dell’altro, e che esprimono questa unione indissolubile proprio col loro rapporto quotidianamente conflittuale; possono anche giungere ad odiarsi a morte, perfino uccidersi come Caino e Abele, o Romolo e Remo, ma proprio in ossequio a quella unione indissolubile che ne accomuna i destini, derivata dalla comune origine, dal dovere la loro esistenza agli stessi genitori. Ciò li schiaccerà sempre l’uno sull’altro, non permetterà mai loro di muoversi lungo un’orbita autonoma, che li separerebbe. E l’odio che li accomuna è – sempre per servirsi ancora un po’ della similitudine – della stessa natura dell’odio che accomuna coloro che entrano in concorrenza, nonostante tutto il fair-play che possono mettere in mostra, anche se proprio il fair-play è l’omaggio che sentono di dover rendere al valore nel quale entrambi si riconoscono: la concorrenza. Insomma, non sempre coloro che si odiano stabiliscono un legame che è ben più vincolante del legame che unisce chi si ama perché si odiano, bensì perché traggono da un comune patrimonio genetico questa necessità di essere uniti. Anche nell’odio.
Fuor di metafora. La scienza, con i caratteri che ha assunto proprio nel mondo moderno, dopo la rivoluzione galileiana, deve la sua struttura rigorosa, la sua stessa deontologia, alla dominante cultura teologica: è in ossequio ad una Verità oggettiva, che esiste oggettivamente, che ci si può accingere, ci si deve accingere, con lo stesso fervore del credente, a venerarla nella ricerca. Come è noto, se Galileo non avesse avuto la ferma fede in un universo ‘scritto’ da dio in caratteri matematici, non avrebbe mai sostenuto con tanta abnegazione – aliena, come pare, dalla sua natura di anti-eroe – il suo metodo sperimentale; allo stesso modo si sa che Newton intendeva ‘dimostrare’ ciò in cui in realtà già credeva senza tentennamenti, cioè nell’esistenza oggettiva di un Ordine cosmico opera di un Architetto divino; per non parlare del celebre (per ciò che si è ritenuto intendesse significare, a dispetto quasi sicuramente delle intenzioni del suo autore) “Dio non può aver giocato a dadi col mondo” di Einstein. E lo stesso rigore posto nella ricerca, il rifiutare tutto ciò che non viene comprovato senza ombra di dubbio, sia pure dall’esperienza, più che un riconoscimento del valore probante del riscontro razionale, sembra dovuto al riconoscimento di un Assoluto, cui l’esperienza non può attingere direttamente, ma di cui non si può negare in alcun modo l’esistenza oggettiva: altrimenti con quale logica si definirebbe come relativa ogni conoscenza, cioè valida fino a prova contraria? Non è questa l’applicazione, solo apparentemente in modo rovesciato, dell’argomento cosiddetto e-contingentia elaborato per dimostrare razionalmente l’esistenza di dio? Ma anche tutti gli altri argomenti ritenuti in grado di dimostrare razionalmente l’esistenza di dio funzionano come paradigma esplicativo legittimante le procedure scientifiche. Anzi, mentre questi argomenti nella loro veste classica costituiscono poco più di in reperto archeologico per la ricerca filosofica, continuano a costituire lo sfondo – per certi aspetti necessario, ma solo per funzionalità operativa, non certo come quell’articolo di fede che sembrano essere – della ricerca scientifica. Insomma, ci si trova di fronte ad un evidente circolo vizioso nel ricreare continuamente il quale uno dei movimenti decisivi è proprio rappresentato dalla scienza.
E allora, i contrasti, le contrapposizioni anche radicali tra cultura teologica e cultura scientifica? Sono proprio dovuti alla comune origine, al monopolio che ognuna di esse intende esercitare su quella Verità, su quell’Assoluto, nei quali fermamente credono, nella misura in cui da essi entrambe derivano. L’una e l’altra rivendicano una sorta di diritto di primogenitura nei confronti di un sapere che comunque va attinto alla stessa fonte: quella dell’Oggettività. In modo diverso, certo, anche radicalmente diverso: l’una, la cultura teologica, ritenendo di doversi mettere nell’attesa fiduciosa che prima o poi questa Oggettività si riveli, attenta soprattutto a scrutarne le avvisaglie, gli annunci, le epifanie, vuoi ad opera di profeti più o meno autorizzati, vuoi rintracciando le vestigia divine nelle viscere del Creato, o comunque della Natura; l’altra, la cultura scientifica, ritenendo di doversi attrezzare con i mezzi di cui dispone l’uomo – sensi e pensiero, esperienza sensibile e riflessione razionale – per mettersi alla Sua ricerca lungo un cammino integralmente mondano, riservandosi il compito, per un verso di sfruttare tutto lo sfruttabile che si incontra lungo il cammino, per un altro verso – e questo è l’aspetto più di tutti conflittuale, concorrenziale – provando, ogni volta che è possibile, l’inconsistenza di tante credenze fideistiche, che allontanano, invece di avvicinare, l’Oggettività… Ma tutti i meriti che la scienza si è guadagnata, e si può sempre guadagnare, nei confronti della ‘concorrenza’ religiosa, sono vanificati, o fortemente compromessi, proprio a causa di questa sua deriva fondamentalista: quella tra l’altro che mette seriamente a repentaglio le indubbie conquiste della tecnica facendole assurgere, in un delirio di onnipotenza, a verifica indiscutibile di un primato del pensiero scientifico di fronte al quale tutto e tutti debbono inchinarsi e adeguarsi. Insomma, la vocazione teologica finisce ancora una volta per relegare in secondo piano, in posizione subalterna – trovando complicità dovunque, soprattutto nel potere economico/politico – l’uomo reale, l’uomo storico.
Ma è anche qui che i contrasti tra le due tradizioni possono trovare, e spesso trovano, una composizione ‘al ribasso’, proprio puntando sui rispettivi fondamentalismi. Quello religioso – almeno quello più avvertito, più attento al suo inserimento come istituzione nella società, come la Chiesa cattolica – cerca alleati e li trova, li può trovare, proprio nella scienza: la quale potrà anche smascherare imbrogli presentati come eventi miracolosi, ma dichiarando d’altro canto la sua impotenza a spiegare invece altri eventi pure dichiarati miracolosi, ne legittimerà ‘scientificamente’ il carattere di Oggettività Soprannaturale proprio sulla base del loro non essere riconducibili alla Oggettività Scientifica. Cioè sulla base di un ‘sacro’ rispetto della Oggettività. (v. ‘fenomeno’ Padre Pio. Questi, un frate francescano sicuramente dotato di facoltà psico-fisiche di natura sciamanica corroborate in lui da una fede granitica, dapprima è accanitamente avversato dall’autorità religiosa per questi suoi poteri fuori controllo da parte dell’autorità stessa, poi, di fronte al diffondersi di una devozione nei confronti del religioso sempre più irrefrenabile, vede questa autorità – decisa a non lasciarsi scavalcare e a riconquistare tutto il suo prestigio verso queste masse sempre crescenti di devoti – mettere la sordina a teologi troppo scrupolosi, e rimettere tutta la questione dei ‘miracoli’ del frate nelle mani della scienza. La quale, non essendo in grado di spiegare alcune guarigioni del tutto inspiegabili sulla base delle acquisizioni della scienza medica, riconosce, non tanto i limiti necessari delle proprie conoscenze come vorrebbe il suo statuto epistemologico, quanto la propria ‘meraviglia’ per una Oggettività raggiunta per altra strada. Da ossequiare comunque.)
E così due autoreferenzialità, due modi di rappresentarsi (di rappresentare ‘a sé partendo da sé’) il mondo, quella religiosa e quella scientifica, ignorando di essere tali, si uniranno in una unica deriva: quella superstiziosa.



 

XII

Le religioni (in particolare quella cristiana) si consolidano nel vuoto filosofico specifico.

“Ma dio, esiste o no?” Si direbbe che una questione del genere, posta in questi termini così espliciti, attualmente riguardi tutto meno che la ricerca filosofica. Perché, e con quali conseguenze?
Un possibile perché potrebbe consistere nel fatto che – trattandosi di una questione alla cui radice sta un’esigenza dove l’aspetto conoscitivo è così pienamente, integralmente compatto sia con quello storico (sociale, politico) che con quello esistenziale – si è venuto a creare un intreccio dell’esigenza conoscitiva con loro così stretto e intrigante, da non lasciarle nemmeno quel margine minimo di autonomia che, secondo una concezione per altro tutta da riesaminare, dovrebbe caratterizzare la filosofia… per cui la questione pian piano è stata accantonata come pseudo-questione, come pseudo-problema. Col risultato di lasciare così via libera (nel senso di non costituirne almeno quell’obbligo critico che, nella sua radicalità, dovrebbe competere – questo sì, in quanto radicalità – alla filosofia) ad una trattazione di competenza esclusiva di chi, a dio, ha scelto di dedicare tutta la sua vita (il religioso di professione), e per il quale la questione se dio esiste o no – quanto meno fin che intende onorare la sua scelta di vita – ovviamente non si pone. Alla filosofia, al libero pensiero, resta, è vero, la cosiddetta opzione agnostica, certamente legittima, e di per sé – se considerata come scelta metodologica, in analogia con quello che doveva essere (ma non è stato) il cartesiano ‘dubbio metodico’ – filosoficamente dinamica, produttiva, ma che in realtà si è via via tradotta in una abdicazione di fatto di fronte ad un problema ritenuto insolubile, e di fronte al quale l’atteggiamento agnostico non è tanto quello della ricerca non pregiudiziale, quanto quello dell’attesa passiva, della rinuncia. Alla filosofia è tutt’al più riservato il discutere, nella sua ‘specializzazione’ teologica, sulla natura, sulle interpretazioni, sui problemi riguardanti dio, il divino, non certo sulla sua esistenza o meno.
E sembra proprio, in altre parole, e da un altro angolo visuale, che le religioni positive, storiche, almeno per quel che riguarda il pensiero occidentale, abbiano finalmente vinto la loro battaglia secolare contro ‘il dio dei filosofi’: un dio, quello dei filosofi, via via sempre più disprezzato dal pensiero religioso nella misura in cui non ha saputo difendersi troppo bene quando gli sono stati portati attacchi dai filosofi stessi. E attacchi che, sempre per quel che concerne la filosofia occidentale così come è stata ‘organizzata’ dai suoi storiografi, a un certo momento hanno ricominciato a riguardare – dopo il lungo dominio del pensiero cristiano medievale – proprio la sua esistenza stessa. Via, allora, ‘il dio dei filosofi’, i cui cedimenti di fronte ad alcune argomentazioni sono tali solo perché è un dio virtuale, puramente pensato, un mero principio logico, come il dio aristotelico, che serve per chiudere in qualche modo tutti quegli spazi vuoti che ogni lettura/interpretazione del mondo operata col puro strumento razionale lascia inevitabilmente dietro di sé! Via questo ‘dio tappabuchi’, che reggendo solo sulla speculazione è continuamente in balia della stessa, la quale, così come l’ha costruito, può sempre distruggerlo! Ad esso va sostituito un dio, anzi, un Dio, reale, un Dio ‘storico’, di cui si ha testimonianza oggettiva: un Dio persona, un Dio con un volto, un nome, e soprattutto una voce, suoi.
Ma come riconoscerlo? Facendo tacere la nostra di voci, la voce della nostra coscienza, e mettendoci all’ascolto: si scoprirebbe intanto – sostengono i denigratori del ‘dio dei filosofi’ – che la voce della coscienza, che credevamo la voce di un io irriducibile ad altro, in realtà non è nostra, l’abbiamo ricevuta in dono, come in dono abbiamo ricevuto la nostra vita, e, nel silenzio che deriverebbe dal suo ammutolirsi, prima o poi si potrà udire la voce che viene da fuori, la voce ‘altra’. Tutto questo, tutta questa esperienza eccezionale, non si darà mai se pretendiamo di ascoltare solo la voce del nostro io, cioè la voce della nostra presunzione!…
E così, per non ascoltare la voce della ‘presunzione’, si ascolta di fatto, rimuovendone però l’esistenza, solo la voce del desiderio (e della paura), che, come ‘voce del desiderio’ (e della paura) deve essere celata alla nostra ragione perché l’importuna finirebbe per smascherarla per quello che è, cioè pura esigenza destinata a restare tale, puro desiderio inappagato e quindi fonte di sofferenza (e di paura)… e questo non piace, anzi, fa male, questo è il vero ‘buco da tappare’! E niente meglio di un dio, anzi di un Dio (come, ad esempio, il dio cristiano) cui si delega tutto – dalla sofferenza al riscatto della sofferenza, quel riscatto che altrimenti non si saprebbe dove rintracciare, e meno che meno lo sa la filosofia – ci può venire in soccorso. E di fronte all’obiezione che si tratta di un dio costruito a nostro uso e consumo, di un dio, contraddittoriamente ma significativamente, antropomorfo, ecco la replica per lo più stizzita: “Ma state zitti, fate tacere la vostra petulante razionalità!”, subito seguita dal monito estremo, che suona come condanna senza appello contro l’uomo che osa rimettere pur sempre tutto, soprattutto l’enigma del dolore che accompagna l’esistenza, alla propria facoltà di pensare, di argomentare, di testimoniare con la parola: “Basta con le parole, con le chiacchiere, qui occorrono fatti!”…
Come se dio, la nozione di dio, pur rimandando – come tutto ciò che ci spinge a pensare e definire qualcosa – alla condizione umana, derivasse, fosse preceduta, da una qualche altra forma di esperienza che non fosse quella dei nostri limiti, vissuti e patiti, e dalla riflessione sugli stessi… per cui proprio per questo, non potendo non renderci conto che la consapevolezza del limite è poi la consapevolezza di una sofferenza, e che ‘pensare’ di andare oltre il limite è un modo per andare oltre la sofferenza – cosa, appunto, che si può solo pensare – diventa fondamentale, per prospettare e sperare in una fine della sofferenza, sapere dell’esistenza o meno del contenuto di questo pensiero, diciamo pure di questa idea di dio. E cos’è il cosiddetto argomento ontologico ricorrente in tutta una fase del pensiero filosofico, a cos’altro è dovuto, se non a questa esigenza di sapere quale consistenza dobbiamo dare alle nostre elaborazioni mentali… e nel caso della ‘idea di dio’, non certo per fare accademia, ma per sapere, né più né meno, del nostro destino? Sono ‘chiacchiere’, queste, e non invece il ‘fatto’ più di tutti necessario per dare, o meglio, cercare, un senso per la nostra esistenza? E di che natura è questo fatto? Non c’è dubbio: riguarda la conoscenza, riguarda l’esigenza di sapere se dio esiste o no, cioè l’esigenza più ‘pratica’, meno ‘teorica’, il vero riassunto finale di tutte le esigenze di cui è intessuta la vita di ognuno… purché si strappi alla vita – alla violenza con cui la vita cerca di imporsi occupando per intero il nostro tempo col suo – il tempo per riflettervi.
Ed essendo un’esigenza, anzi, l’esigenza pratica per eccellenza in quanto dal suo soddisfacimento dipende l’identificazione del punto di riferimento in base al quale comportarsi, una risposta alla domanda si impone. Ma – qui sta il vero nodo da sciogliere – a quale livello, facendo riferimento a quale delle nostre facoltà? Dovrebbe essere evidente: a livello speculativo, con la riflessione. Rinunciarvi perché non si arriva ad una risposta convincente e rimettersi a qualche altra forma di esperienza (quale?) che non sia quella speculativa, significherebbe rinunciare ad affrontare la sostanza della questione. In altre parole, giungere per qualsiasi altra strada (ma quale?) a dare una risposta al quesito se dio esiste o non esiste, sarà solo un cedere all’urgenza della questione e salire sul primo mezzo di trasporto che transita nelle vicinanze pur di essere trainati fuori dal dubbio. Fuori dalla esigenza di sapere… ma perché travolti, inconsciamente travolti, dall’esigenza di sapere! Dalla esigenza di dare una risposta che ci si rifiuta di elaborare razionalmente perché troppo faticosa, ma che deriverebbe pur sempre da un quesito posto dal nostro essere animali razionali. E quando le questioni sono di questa natura – se si è seguito per affrontarle la via consapevolmente razionale, cioè ben attenti ad evitare suggestive ma ingannevoli scorciatoie, se si è consapevoli in altre parole delle straordinarie difficoltà poste da una questione per altro irrinunciabile, e proprio perché irrinunciabile – la risposta, quale che sia, non può che essere, e restare, assolutamente restare, soggettiva, cioè riguardante la propria interiorità, la propria personale coscienza, e quindi esperienza: non può cioè pretendere di essere utilizzata per stabilire regole, norme, comportamenti oggettivi, che cioè valgano anche per gli altri, sia pure anche solo per coloro che sono pervenuti a risposte analoghe… Come invece, all’opposto, fanno le religioni positive (quale che sia la loro natura: fosse pure, per esempio, un ateismo vissuto però ‘religiosamente’), quelle che ritengono di possedere la risposta oggettiva, valida per tutti, e in ogni caso categoricamente vincolante per i propri affiliati.
Per tornare all’argomento ontologico (che riguarda il dare realtà, e quale realtà, ai contenuti della mente, e quindi anche all’idea di dio), cosa si riscontra? Nella storia del pensiero occidentale (secondo la storiografia specifica più accreditata), dopo Kant (che lo nega) ed Hegel (che lo ripropone), se ne perdono le tracce, almeno come questione filosoficamente rilevante, con la conseguenza, come detto, di lasciare la questione di competenza esclusiva di chi la risposta non la cerca più perché ritiene di averla già ricevuta, e cioè il religioso di professione (l’affiliato ad una qualsiasi religione, quelle che soffocano ogni religiosità) o il teologo (di qualsiasi teologia si tratti, fosse pure una teologia, paradossalmente ma storicamente sempre verificabile, ‘atea’) che disquisisce sui problemi che il divino comporta, non sulla sua esistenza.
E cosa significa questa latitanza della filosofia? Sia ben chiaro: non è che la ricerca filosofica come tale abbia un impatto diretto sul formarsi delle opinioni, ma la sua assenza in questo caso lascia che assuma rilievo filosofico – cioè che gli si riconosca il crisma della speculazione profonda che in genere viene attribuito, adesso non importa se con motivazioni giuste o sbagliate, alla filosofia – ciò che è tutto meno che espressione di libero pensiero. Ecco allora che, non solo il problema teo-ontologico, ma – attraverso il baratro aperto da questa latitanza – praticamente tutti i temi della speculazione filosofica, da quelli epistemologici a quelli naturalmente esistenziali, sono ri-trattati da una ben precisa angolazione, che di problematico ha ben poco, essendo il punto di vista della Rivelazione, cioè del dogma, e riducendosi perciò tutto a ‘scolastica’… E la filosofia?
Alla filosofia, relegata nella riserva accademica, per quanto riguarda il formarsi delle opinioni correnti che caratterizzano una cultura, spesso torna ad essere riservato il ruolo – fissato allora almeno senza ambiguità, con una sua indiscussa coerenza, dal pensiero scolastico – di ancilla theologiae (di teologie vecchie e nuove)… ma, appunto, ora in modo ambiguo, nel rispetto ipocrita di una sua autonomia che in realtà dal ‘credente’ non sarà mai accettata, mentre farà di tutto per invaderne il terreno e far pesare sul ‘libero pensatore’ (lasciato credere di essere tale) i limiti invalicabili su cui finisce sempre per arenarsi la sua ricerca… perlomeno quando si giunge al redde rationem di un qualsiasi percorso di indagine sullo ‘stato delle cose’ di questo mondo, perché prima di questo punto – per altro obbligato – d’arrivo, alla filosofia si riconosce (si finge di riconoscere) una sorta di sovranità illimitata sulle questioni che riguardano l’esercizio del pensiero.
Più faticoso e difficile, almeno all’apparenza, per la cultura teologica in tutte le sue espressioni rispondere all’attacco che può essere portato alle religioni comunque configurate dalle cosiddette ‘scienze umane’, psicanalisi in primis… ma su questo terreno trova alleati insperati e preziosi in due fattori sempre più evidenti nella cultura ‘moderna’: il ‘fondamentalismo’ in cui finisce sempre più per invischiarsi la scienza (e quelle ‘umane’ vogliono pur sempre essere scienze), e tanto più quanto più ottiene successi, da un lato, e dall’altro la debolezza, il complesso di inferiorità, della filosofia stessa di fronte alla scienza che la porta a spingersi, per ritrovare un suo spazio autonomo sulla questione del divino, comunque inteso, ad un ascolto ancor più accondiscendente delle sirene mistiche. Da qualunque parte del pianeta provenga il loro canto.
Insomma, i veri cultori del ‘pensiero forte’, di fronte ad una ricerca filosofica frastornata dalle tante tentazioni costituite dal ‘pensiero debole’, intimidita dalle tante realizzazioni del ‘pensiero debole’ (tanto sbalorditive quanto pericolose, da ‘apprendista stregone’), forse stanca di continuare ad usare quello strumento tanto prezioso quanto inoffensivo nel senso migliore del termine (il solo veramente pacifico) che è l’arma del dubbio, sono tornati ad essere quegli impresari del nulla, quei piazzisti del vuoto, nei casi più miserevoli quei venditori di fumo, che sono i teologi. Di qualsiasi teologia (vecchia, nuova) si proclamino interpreti.
Capaci di costruire, questi teologi vecchi e nuovi, su una ipotesi tutta da verificare (un’esistenza di dio, di un divino, che di certo, di indubitabile, ha solo il suo costituire un oggetto del desiderio e della paura insieme) tutti i possibili significati da dare all’esistenza singola e associata, di ognuno e di tutti.

 

 

 

 

XIII

Ma le guerre, non sono tutte ‘guerre di religione’?

Se per guerra si intende una violenza esercitata da un intero gruppo umano preventivamente già organizzato per poterla sostenere proprio come gruppo, legittimata dal fatto che è considerata indispensabile per rivendicare un qualche diritto contro un altro, o altri, gruppi umani (fosse pure ‘il diritto del più forte’ per un verso, o il diritto a difendersi da eventuali aggressioni per il verso opposto), ogni guerra potrebbe essere considerata – al di là di quelle che tali sono espressamente – guerra di religione. Da almeno due punti di vista.
Intanto – come premessa – occorre dire che, nel mondo contemporaneo, dove alcune conquiste della società civile sono diventate senso comune, cioè valori universalmente riconosciuti come tali, nessun gruppo umano in grado di esprimere sufficiente autorevolezza (in sostanza nessuna nazione riconosciuta come stato sovrano) intraprenderebbe un conflitto rivendicando esplicitamente ‘il diritto del più forte’, almeno non secondo il senso letterale dell’espressione (sarebbe condannato come ‘imperialista’)… In realtà non occorrono (non sono occorsi) molti sforzi dialettici per camuffare, di fronte ad una opinione pubblica soprattutto interna resa disponibile e nella maggioranza connivente, questa intenzione, accampando vecchi e nuovi torti da vendicare, intesi come aggressioni dalle quali è (era) indispensabile difendersi. Attaccando. Anticipando il ‘nemico’. E quelle nazioni che hanno effettivamente subito un attacco e si sono sentite, con qualche diritto, vittime avendo dovuto soccombere nell’immediato, quasi sempre hanno cercato e denunciato colpevoli paradossalmente, più che tra i nemici esterni, tra quelli interni: rei, questi ultimi (in genere ‘pacifisti’), di aver ostacolato una corsa al riarmo da fare in tempo utile, oppure di avere impedito di prendere spregiudicatamente l’iniziativa anticipando, appunto, il nemico. In ogni caso, proprio l’aggressione subita, oltre che costituire il precedente che giustificherà in seguito eventuali aggressioni, inserirà a pieno titolo la nazione aggredita tra i protagonisti, se già non lo era, di una faida infinita. Per cui, aggressori o aggrediti, tutti gli stati si considerano (hanno la necessità di considerarsi) innocenti e difensori ad oltranza di diritti inalienabili, di valori supremi.

Vediamo piuttosto allora (riprendendo considerazioni fatte in precedenza) quali sono, di che natura sono, questi valori/diritti ai quali non si deve rinunciare anche a costo della vita, e, soprattutto, da chi propriamente vengono dichiarati tali e rivendicati. Senza preoccuparsi troppo di tralasciarne qualcuno dal momento che comunque hanno tutti in comune un carattere fondamentale che vedremo (e che intanto contrassegneremo il loro essere tali con l’iniziale maiuscola), citiamo i più ricorrenti: la Vita, la Morale, la Legge, la Libertà, la Giustizia, il Progresso, la Religione, la Patria, la Famiglia, le Istituzioni; nel mondo moderno anche la Rivoluzione, un Mondo Migliore, il Benessere, la Felicità; perfino – con un salto mortale che sarebbe grottesco, se non fosse, appunto, mortale – la Pace (si vis pacem, para bellum); ultimamente poi va molto la Solidarietà. Di cosa si tratta in realtà?
Di entità metafisiche! Cioè di entità – i cosiddetti valori – che devono la loro esistenza a esigenze, a bisogni, impliciti nella condizione umana, indicandone pertanto i limiti, la precarietà, e quindi necessariamente identificabili sempre assieme alla negatività che rappresentano, che ne è all’origine… ma che poi vengono separati da essa e fatti assurgere a vere e proprie ‘idee platoniche’, a Oggettività esistenti in una realtà a sé, perfetta (come non può che essere perfetto tutto ciò che dovrebbe rappresentare il Desiderio Realizzato), nei confronti delle quali esiste un solo atteggiamento: l’adorazione e la devozione totali che si debbono al sacro.
Ma naturalmente, come per il mondo dell’esperienza nei confronti dell’Iperuranio, noi ne partecipiamo solo parzialmente, cioè imperfettamente, ed ecco allora che compito di chiunque ‘sa’ dell’esistenza dei valori, di chi vive nel loro cono di luce, è quello di promuovere tutto quanto li rende sempre più avvicinabili e fruibili, e intanto ha il compito di rendere consapevoli coloro che ‘non sanno’, e se del caso costringerli per il loro bene… ma quando ciò non bastasse (e quando mai è bastato impostando così la questione?) ci si deve mobilitare per combattere ed eliminare tutti quanti non possono o non vogliono (magari perché hanno un’idea distorta – cioè diversa – dei valori) seguirli e condividerli. In altre parole, la forza è doppiamente necessaria: per costringere i riottosi, e per combattere ed eliminare i veri e propri nemici, quelli che non hanno valori, o ne hanno di diversi, cioè pseudo-valori.
E quando si tratta di forza, perché essa sia veramente persuasiva, efficace, il numero, la quantità, la massa, la moltitudine, sono essenziali; e ovviamente si deve trattare di una moltitudine unita, compatta, soprattutto ferma nelle convinzioni comuni, cioè tale per cui tutti ed ognuno debbano essere convinti delle stesse cose essenziali, legati gli uni agli altri da un legame indissolubile (tipo Famiglia, Clan, ma poi soprattutto, essendo decisiva la quantità, Popolo, Nazione, Etnia, ecc)…
e cosa meglio di una religio per re-ligare, per legare insieme, tanti individui, tante entità singole? Qualunque religione, comunque formalizzata: da quelle che difendono la Vita come dono divino (quindi, se necessario, da restituire in qualsiasi momento senza troppi rimpianti), via via a quelle che identificano il ‘sacro’ nell’Onore, nella Libertà, nel Benessere, nella Felicità, nella Rivoluzione, insomma in tutto quanto viene comunque considerato, data la sua natura sacra, in sostanza divina, superiore ad una qualsiasi vita. Anzi a tante, anzi a tutte, le vite.
Ora, quando si fa riferimento a valori intesi non come esigenze (la vita, la libertà, la giustizia, il benessere ecc: e poi le istituzioni, in qualche modo necessarie perché non vengano represse come esigenze) – le quali senza alcun dubbio sono potenzialmente conflittuali, ma che si possono neutralizzare nella loro carica distruttiva solo riconoscendone la pericolosità assieme alla necessità – e invece li si sacralizza e li si solleva al di sopra del dramma esistenziale in un Empireo di perfezione (la Vita, la Libertà, la Patria, la Rivoluzione, ecc.), ad esserne garanti non sono più considerati tutti gli uomini indistintamente, ma solo chi – per un qualche intervento diretto della divinità, o comunque per un evento non dovuto certo alle povere facoltà umane – ‘incarna’, cioè rende visibili e operanti fra noi poveri mortali queste entità superiori. Ad essi, solo ad essi (i sacerdoti di qualunque religione: confessionale o laica, dove, in altre parole, è comunque previsto il culto di qualcosa o qualcuno) dobbiamo affidare i nostri destini; essi sono quelli che segneranno con le loro direttive i lati della strada lungo la quale deve incamminarsi l’umanità: non certo per realizzare se stessi, in rappresentanza di se stessi (il culto che loro si deve si premura proprio di evidenziare questo loro ‘sacrificio’), ma per permettere il diffondersi dei valori. Insomma, per il bene di tutti.
E se poi sarà necessario, per ‘fare la storia’ – sempre per il bene di tutti – fare anche qualche guerra, cioè sacrificare qualche migliaio, o milione, di uomini, o anche tutta l’umanità e il pianeta che la ospita (il ‘progresso’ tecnologico l’ha finalmente reso possibile), tutti, e primi fra tutti i sacrificati, dovrebbero essere grati a chi avrà permesso loro di aver contribuito alla elevazione – magari così in alto da abbandonare per sempre questa valle di lacrime – dell’uomo.

Ma il discorso delle ‘guerre come guerre di religione’, non riguarda solo questo aspetto, per così dire, oggettivo (nel senso del suo riferirsi a valori presunti oggettivi). Ne esiste anche uno soggettivo (nel senso del suo riferirsi direttamente alle contraddizioni proprie dell’io, del soggetto). Le guerre, tutte le guerre affrontate come necessario sacrificio anche della vita per uno scopo, un fine, superiori, sono guerre di religione anche perché sono combattute, per paradossale che possa sembrare, come per una sorta di bisogno esistenziale, però rimosso, e, ancor più paradossalmente, rimosso proprio dalla cultura religiosa, se non dalle istituzioni religiose come tali: per il bisogno, rimosso, della morte. E non si tratta di un paradosso, a meno che si consideri paradossale il fenomeno – ormai conosciuto ed analizzato dalla scienza psicanalitica sia pure entro i limiti propri di ogni conoscenza scientifica – della rimozione.
Le religioni sono state definite, e con buone ragioni, l’‘oppio dei popoli’, mettendo in evidenza, tra l’altro, l’inganno, il trucco, di cui si sono serviti e si servono – più o meno consapevolmente, intenzionalmente – alcuni gruppi di uomini che hanno strumentalizzato la religione per far accettare come necessario per tutti in quanto utile per tutti un sacrificio (che, quando occorrerà, potrà essere anche, appunto, una guerra) che in realtà era ed è utile solo per loro, per i loro interessi. Interessi che in genere sono sempre molto materiali, ma che possono essere anche ‘spirituali’, in ogni caso sempre ‘privati’, ma che proprio per questo possono essere resi presentabili e accettati solo se camuffati da interessi superiori… e per far questo, si diceva, la carica religiosa, il coinvolgimento che è in grado di provocare una religione sentita e praticata, sono quanto di meglio. Ora, però, questo gioco infame e tragico è stato via via, nel corso della storia, individuato e denunciato, e in genere nel mondo contemporaneo c’è una opinione pubblica avvertita che, di fronte all’eventualità di quel bagno di sangue che è comunque sempre un conflitto armato, si sente in dovere di vedere bene cosa c’è sotto: e questo molto per merito di quella che è stata efficacemente definita ‘cultura del sospetto’ (Marx, Freud, Nietzsche), non certo della cultura religiosa, la quale, se mai, si è accodata. E si è accodata quando l’Istituzione religiosa, inserita capillarmente in un tessuto sociale dove intende svolgervi un ruolo decisivo da tutti i punti di vista, può essere ben attenta a non farsi strumentalizzare da un potere civile col quale è in più o meno aperta concorrenza, e quindi essere lei per prima a denunciare come crimine un conflitto armato: facendo appello in tali circostanze a valori che afferma di incarnare, certamente, e certamente anche – in questo caso – in buonissima fede, ma ribadendo in tal modo il principio che il potere di vita o di morte non dipende dagli uomini, ma da un potere superiore. Di cui essa Istituzione si fa garante. Tanto è vero che, in circostanze diverse, queste stesse Istituzioni religiose, scavalcano e anticipano il potere civile e, sempre in nome di sacri principi, possono anche patrocinare una guerra: ovviamente santa. E’ stato ripetutamente fatto e – magari con protagonisti che nel corso della storia si sono avvicendati, ora nella parte dei tolleranti, ora degli intransigenti – lo si sta facendo. Un po’ ovunque sul pianeta.
Quindi evidentemente non è bastato smascherare e denunciare gli interessi reali che hanno motivato quasi sempre i fautori di un conflitto armato facendosi spesso scudo della Istituzione religiosa o comunque sfruttandone l’impatto culturale, e anzi viviamo attualmente in una società dove il potere religioso, in varie forme, ma pur sempre come Istituzione riconosciuta, forse non è mai stato così presente… e, si badi bene, presente sbandierando un valore – almeno da parte delle religioni più diffuse – dichiarato da sempre loro patrimonio: la Pace! Come mai allora tanti conflitti armati e tante minacce di conflitti armati? In altre parole, magari un po’ semplicistiche: perché tutti sono contro la guerra (l’‘inutile strage’ – parola di Pontefice – che non ha mai risolto, anzi ha solo aggravato, i contrasti) e si continua a farle e prepararle?
Per provare a rispondere si possono richiamare certi meccanismi della nostra psiche individuati dalla psicanalisi, intesa come ‘psicologia del profondo’, già utilizzati dalla stessa anche a questo scopo, ma ben lontani dal costituire la base per il formarsi di un sentire comune nuovo, anche per una sua deriva fondamentalista che (in analogia con le altre scienze umane, ma per la psicanalisi in modo tutto particolare) l’ha fortemente indebolita di fronte all’ondata di riflusso religioso. Si tratta di questo: c’è nell’uomo un istinto di morte che, se rimosso, impedito cioè nel suo pervenire a coscienza – come appunto aiuta a intendere la psicanalisi – si traduce, con contraddizione solo apparente, in un vitalismo sfrenato, in una sfida continua alla vita, tanto più assurda e inutile quanto più sembrano mancare le condizioni oggettive per affrontare questi rischi estremi. A questo proposito, una sola considerazione per tutte: parallelamente all’innegabile miglioramento delle condizioni materiali di vita sul pianeta, e comunque all’individuazione certa di mezzi e metodi per consolidare ed estendere questo miglioramento, dovuti all’ingegno umano, lo stesso ingegno umano ha trovato il modo per rendere sempre più precaria la vita sulla terra… e non solo la vita di chi ha pagato e paga per rendere possibile questo ‘progresso’ (anche se basterebbe e avanzerebbe l’insostenibilità di questo costo sociale per dover riconsiderare tutto), ma anche di coloro che dovrebbero averne usufruito. Che sono i più smarriti… e i più scoperti di fronte all’offensiva di quanti si stracciano le vesti per ‘questo crollo dei valori’. E così, più aumentano le possibilità reali, concrete, di miglioramento delle condizioni di vita dell’uomo ad opera dell’uomo stesso, più aumenta la sua spinta autodistruttiva, il suo cupio dissolvi (v. i movimenti pauperistici, con il catarismo come loro espressione estrema, sorti in uno con le prime affermazioni umanistiche, con le prime avvisaglie di modernità) contrariamente a quanto sarebbe dato pensare secondo il più elementare buon senso. E quando il buon senso è in difficoltà perché contraddetto dall’evidenza, pare che non resti altro che prendersela con gli ‘astri avversi’, o con quel loro omologo costituito dal ‘crollo dei valori’. Insomma, con quanto accade ‘altrove’.
Si provi invece a prendere in considerazione, quale che sia il nome che gli si intende dare, ciò che collega inscindibilmente, in un rimando che sembra così assurdo, questa ‘ansia di vita’ e questo ‘istinto di morte’, quegli Eros e Thanatos, già messi in stretta relazione da Freud. Cosa è possibile cogliere? Che si alimentano a vicenda in proporzione diretta: più si potenzia l’uno, più nella stessa misura viene potenziato l’altro. Più si esalta la vita, più si è inconsciamente tentati di metterla alla prova per vedere fino a che punto regge la sua potenza (volontà di potenza). In che modo? Sfidando la morte! Sforzandosi di sentirsi superiori alla morte, di non temerla. L’eroe che muore in battaglia si dice che disprezza la morte, ed è vero: non la teme, anzi la vuole, la cerca, la sfida, appunto. Ma così facendo, cosa fa se non disprezzare di fatto la vita, gettarla via in nome, ma sì, della sua esaltazione? Chiunque accetta che l’uomo possa così assurdamente mettere a repentaglio se stesso in una guerra, e accetta di parteciparvi, lo fa anche perché – mascherando il tutto sotto il sacrificio che i principi richiedono – è attirato inconsciamente da ciò che lo terrorizza. La morte, rimossa, si prende la sua rivincita.
E chi più della cultura religiosa – che propone, non solo e non tanto, un’altra vita, o comunque l’esistenza di un altro piano di realtà, ma proprio un’altra dimensione (immanente o trascendente, a questo punto la distinzione non significa nulla) in cui la vita sarà finalmente piena, invitta, realizzata – ha contribuito a questa rimozione della morte? Magari, con splendida immagine poetica (validissima come tale, purché vissuta come tale), cercando di esorcizzarne l’impatto col prenderla sottobraccio ad accompagnare il nostro cammino: la francescana ‘sora nostra morte corporale’, la ‘sorella morte’. E il bisogno esistenziale di affrontare la morte rimosso per paura della morte, per paura del nulla d’esperienza che pure ognuno reca con sé per il solo fatto di esistere, di aver cominciato ad esistere nel tempo, cioè soggettivamente provenendo dal nulla, trova spianata la strada per una sua sorta di incontrastata affermazione: si dice di combattere la morte mentre la si cerca.

Se la cultura che si dice laica, ancora una volta, lascerà che le questioni che riguardano la vita e la morte proprio nel loro impatto esistenziale siano monopolio, presso le grandi masse, della cultura religiosa accontentandosi dell’accademia – scientifica, artistica, soprattutto filosofica – non serviranno a molto le denunce, pur doverose, di fanatismi e assurdi eroismi. Quelli che hanno alimentato, alimentano, e alimenteranno sempre, i conflitti armati.

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Intermezzo
(11 settembre 2001)

(Si tratta di una sospensione nella stesura di queste note – poi riconsiderata e superata riprendendole – in seguito all’attentato dell’11 settembre 2001, per il riscontro davvero eccessivo nella sua tremenda puntualità di quanto si stava cercando di argomentare. Sotto l’impressione, in altre parole, che queste riflessioni fossero talmente al di sotto e fuori misura rispetto a eventi che stavano richiedendo ben altro che una innocua denuncia, per cui sembrò che continuare in questo attacco alla religione e al suo potere alienante fosse poco più di un esercizio accademico. E la conferma ‘nei fatti’ di quanto si stava sostenendo, ben lontana dal gratificare in quanto conferma, gettava nello sconforto per la protervia senza prospettiva di riscatto di quanto stava accadendo: una forza tremenda che non sarebbe mai stata nemmeno parzialmente scalfita da una qualsiasi forma di consapevolezza e quindi di ripensamento. Questo l’impatto immediato, questa la conseguente momentanea paralisi. Cos’era successo?

L’11 settembre 2001, due ‘torri’, due grattacieli svettanti nel profilo panoramico della più grande metropoli del mondo (simboli concreti e ostentati della potenza e dell’efficienza del capitalismo, simboli cioè di un potere la cui concentrazione era esemplarmente rappresentata da questi edifici così simili – nel loro proiettarsi verso il cielo dove la necessità funzionale di tale scelta forse era solo un pretesto inconscio – alle tante cattedrali sparse per il mondo come luoghi di culto) di fronte agli occhi di mezzo mondo sono franati su se stessi e sui poveri officianti che vi stavano tenendo il loro rito quotidiano, in seguito ad un attacco suicida. Ad opera di chi? Dei sicari di un altro potere che, sentendosi minacciato nell’esercizio del suo dominio ancora troppo tradizionalmente demandato ad una religione positiva tradizionale, ha reagito dando il via, sia pure con mezzi nuovi, sagacemente mirati a colpire i punti deboli dell’attuale nemico-concorrente, ad una tradizionale guerra santa. Non è parso vero a questi fanatizzati cultori di un dio che li vedeva naufraghi disperatamente aggrappati ai miseri relitti che un dio evidentemente più potente stava loro riservando, di dare una mano al proprio dio in difficoltà sacrificandogli con totale determinazione e perizia le proprie esistenze, purificando col proprio sangue l’orrendo bagno di sangue provocato e staccando direttamente e trionfalmente il biglietto d’ingresso nella gloria degli eletti per l’eternità.
Ben lieti per altro, i loro mandanti, di verificare l’efficacia del loro assalto vedendo subito profilarsi negli assaliti, in perfetta sintonia e simmetria, una analoga sindrome da guerra santa: altrettanto organizzata e gestita con strumenti e procedimenti adeguati alle novità, soprattutto tecnologiche, nel frattempo elaborate, per una altrettanto tradizionale guerra santa. In una uniformità di linguaggi oltre tutto che più tradizionale non poteva essere, cioè con la eterna proclamazione solenne della lotta del Bene contro il Male, della Verità contro la Menzogna. Del Dio autentico contro il falso dio. E così via. ‘Non prevalebunt’!
E ben lieti, gli uni e gli altri, di poter mostrare ai propri fedeli dove e in chi risiedesse veramente la causa di tutti quei mali che, nella latitanza di un nemico ben visibile e identificabile, poteva anche ingenerare il sospetto che potessero essere addebitabili a quei sacerdoti cui avevano delegato il compito di provvedere alla loro salvezza. Eterna (gli uni) o mondana (gli altri), poco importa.
E questi avvenimenti erano talmente al di là di ogni immaginazione, anche la più perversa (e nonostante i continui massacri quantitativamente ben maggiori che tutti si sapeva avvenire in tante parti del mondo ma tacitati nelle coscienze perché non così spettacolarizzati), che, assieme a quelle torri e alle ripercussioni planetarie del loro crollo, sembrò crollare ogni barlume di resipiscenza, sembrò svanire tutto quanto, nelle persone di buona volontà e di buon senso, era stato messo faticosamente in opera per relegare ai margini della convivenza civile, in quanto pericolosa franchigia concessa agli istinti più autodistruttivi, ogni pretesto per dimenticare l’indicibile stupidità di ogni guerra. Invocata adesso anche da molte delle stesse persone che furono di buona volontà e di buon senso. Fu quasi inevitabile nell’immediato la tentazione di ritenere che, non solo si era gloriosamente dimenticato tutto, ma che si era aspettato solo il momento per ritirare trionfalmente fuori un desiderio di morte solo momentaneamente tenuto a freno in omaggio ad una ragionevolezza che evidentemente rischiava però così di vanificare il ruolo dei paladini della trascendenza come quello dei paladini delle ‘magnifiche sorti e progressive’ da privilegiare su tutto e su tutti. Scesi subito in campo, gli uni e gli altri, con l’armamentario di sempre: da un lato l’appello diretto, in quanto ultima risorsa, ad un dio nelle cui mani soltanto poteva essere posta una necessità di riscatto altrimenti improponibile; dall’altro una necessità di difendersi dalla barbarie che solo una barbarie speculare – alimentata più o meno inconsciamente da quanto era costata e continuava a costare una civiltà costruita quasi integralmente sul sopruso e sulla predazione – sembrava rendere efficace. Rinfacciando senza pudore, con le solite armi della propaganda, gli uni agli altri i rispettivi torti e misfatti.

Ecco, e sembrò servire a ben poco, di fonte a questa rottura di ogni argine di ragionevolezza, di fronte a questa esplosione di insensatezze che si andavano alimentando reciprocamente, continuare nella ricerca del permanere tenace dei residui di una alienazione che si stava riproponendo tutt’altro che come residuo, e proprio invece in tutta la sua originaria potenza oscurantistica. Buddha non era morto per niente, e non era tanto la sua ombra che bisognava temere, ma il dio in persona, richiamato a gran voce sulla scena da credenti e non credenti – in un contorcimento dialettico tanto grottesco quanto spaventoso – sia come artefice tramite i suoi fedelissimi dell’instaurarsi del suo Regno ancora una volta messo in discussione dalle forze del Male, sia come ultima ancora di salvezza, sempre contro le forze del Male. In altre parole, per gli uni e per gli altri, dio, il proprio dio, doveva contemporaneamente essere il ‘dio degli eserciti’ e il pietoso redentore della follia dell’uomo che si stava ancora una volta manifestando con una guerra. Ma folli naturalmente erano gli altri, i nemici, e il loro dio, di fronte ai quali perciò, il proprio dio, di solito così pietoso, adesso non poteva più esserlo. Avrebbe potuto riprendere ad esserlo solo dopo la vittoria, naturalmente anche e soprattutto proprio con i vinti: che però intanto andavano vinti, schiacciati, se necessario anche fatti sparire dalla faccia della terra.
Infine, paradosso dei paradossi, tutti a sostenere – nel momento stesso in cui, essendosi sia pure in misura diversa posto la morte come evento inevitabile, si chiedeva per la prova estrema il conforto di dio – che non si trattava di una ‘guerra di religione’. Che le religioni non ne avevano colpa alcuna, che il loro vero insegnamento andava in direzione opposta, e che ‘guerra santa’ e ‘dio degli eserciti’ erano solo innocenti metafore, o comunque espressioni che andavano ‘contestualizzate storicamente’, e che le guerre fatte in loro nome non erano guerre giuste… Come invece era questa! Amen.
E mentre i soliti ‘materialisti-realisti’ confortavano questa tesi (“non si tratta di guerra di religione; se mai la religione è solo, classicamente, la copertura ideologica”) mettendo in campo evidenti interessi materiali che, come sempre, si dovevano considerare il vero movente di ogni conflitto, mai chiedendosi perché tanto ‘materialismo’ avesse ancora e sempre bisogno per far valere le sue esigenze di vita di dare e ricevere morte, mentre si affermava questo da più parti, la voce di tanti – per altro assolutamente meritevoli – pacifisti sembrava trovare ascolto solo quando assumeva i toni della denuncia dell’offesa che la guerra portava alla vita in quanto dono divino…
No, sembrava proprio che non fosse mai avvenuta alcuna secolarizzazione e che nessun dio fosse morto: tutt’al più si era assopito nelle menti un po’ offuscate dall’abbuffata nevrotica resa possibile nella società cosiddetta affluente, mentre non poteva che riempire completamente con la sua presenza gli stomaci vuoti di chi era stato escluso dall’abbuffata; ed era l’urlo di questi ultimi che terrorizzava i primi e ridestava il loro dio assopito.
E verificare questo, vedere con quale voluttuosa incoscienza si stava di nuovo dando ascolto a questi istinti primordiali come se tutta una lotta contro l’oscurantismo per il progresso fosse servita solo per far progredire la potenza delle armi (letteralmente alcune anche definite ‘intelligenti’) con le quali spegnere tanti lumi che evidentemente invece di rischiarare l’orizzonte lo avevano solo reso più ingannevole, suonava come una conferma fin troppo puntuale per essere vera, nei dettagli come nell’essenziale, della paura degli uomini di guardarsi con disincanto.

Fin troppo puntuale per essere vera, ma era vera, bisognava prenderne atto…
Bisognava prenderne atto, ma nel contempo non farsene travolgere in prospettiva nichilistica, continuare con ostinazione a puntare sugli sforzi ‘illuministici’, sulla base di due considerazioni:
intanto erano pur sempre molti, tanti, non importava poi troppo sulla base di quali vere motivazioni, coloro che non intendevano in alcun modo accettare passivamente questa deriva, che si appellavano magari a quelle stesse sirene che avevano distolto lo sguardo dei più da se stessi, ma che si ribellavano ad una alienazione di cui avvertivano tutta l’insensatezza. Erano tanti, e soprattutto molti di loro erano in-ermi (senza armi, né fisiche né ideologiche, o in ogni caso non disposti ad usare le proprie convinzioni come armi), e ben decisi a puntare proprio sulla loro ‘inermità’, per testimoniare come in essa, solo in essa, potesse esistere la vera salvezza;
in secondo luogo, ciò che stava accadendo doveva gran parte, o forse tutta, la sua traumaticità proprio al fatto che l’‘ombra di Buddha’, non combattuta, anzi lasciata proliferare perché ritenuta meno condizionante del dio, in realtà svolgeva il compito di ‘rimuovere’ il dio, cioè di preparargli quel ritorno non ostacolato da alcuna difesa che è tipico del rimosso. Certo, verificare questo, nel senso di trovarsi di fronte al suo effettuarsi, è disarmante, e tanto più quanto più si prova forte la sensazione che il dio che si era ‘ucciso’ proprio per questo rinasceva più potente e invincibile di prima, per cui – come sosteneva ambiguamente proprio Nietzsche – l’uomo non è ancora in grado di liberarsi veramente di lui… ma questo è tanto più vero quanto più ci si ‘meraviglia’ di ciò che per altro si era ‘presagito’, ma evidentemente non creduto fino in fondo, per cui non bisogna ripetere l’errore storico di ‘spaventarsi’ per avere, più che visto, sentito giusto: bisogna, in altre parole, liberarsi veramente della paura delle ombre, e tanto più quanto più le ombre sembrano materializzarsi. Anzi, quando si materializzano proprio sotto i nostri occhi. Questi fatti atroci, sono tanto più atroci quanto più devono la loro spaventosa concretezza alla più sfrenata delle astrazioni, all’ombra più vana che la nostra paura sia in grado di gettare.
Sì, si tratta di un’ombra spaventosa, che sembra non dover mai lasciare l’uomo, quello di oggi ancora come quello di ieri, ma bisogna continuare tenacemente a proclamare che di un’ombra si tratta: è proprio di fronte alla morte, assolutamente inutile e tanto più rinnovata quanto più inutile, di tanti fratelli che diventa uno scrupolo eccessivo temere di passare per saccenti, per inutili e fastidiosi ‘grilli parlanti’. Per timore di esercitare pur sempre una violenza. Sarebbe, in ogni caso, l’unica violenza esercitabile perché l’ultima possibile prima di quella definitiva, di quella irreversibile: quella che porta alla morte del corpo nell’illusione di salvare la sua anima. Cioè la sua ombra.)


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XIV

E’ possibile, all’interno di una militanza religiosa, distinguere tra autentica religiosità e superstizione?

A questa domanda sembra di poter rispondere affermativamente solo ad una condizione, già di per sé molto ambigua, per non dire poco più che virtuale, ma in ogni caso tutt’altro che presa in considerazione – nemmeno come arma polemica – dal pensiero laico (che raramente è un pensiero anche a-teo, cioè un pensiero che cerca, si studia, si sforza, di articolarsi e di svilupparsi al di fuori del condizionamento di una qualsivoglia trascendenza). La condizione comunque potrebbe essere questa: che si accetti – per usare, in modo niente affatto innocuo, come si vedrà, un’espressione tipica del pensiero religioso ‘tollerante’ però ribaltata proprio sull’universo religioso come tale – di ‘distinguere tra il peccato e il peccatore’, dove il peccato andrebbe combattuto senza indulgenze, mentre il peccatore andrebbe capito, amato, e ovviamente aiutato a redimersi… e dove, operato il rovesciamento, il peccatore verrebbe ad essere il credente e il peccato gli articoli di fede cui fa riferimento. In altre parole, si tratterebbe di non usare alcuna indulgenza per un pensiero, una cultura – quella religiosa – che avrà sempre come causa e come effetto un uomo alienato, ma con la disponibilità a riconoscere la possibilità che emerga una dimensione di autentica religiosità (il vivere il mistero della condizione umana sentendolo soprattutto come tale, quindi non svelabile in alcun modo) anche all’interno di un mondo, quello dei credenti militanti, dove il mistero, il sentimento del mistero, è destinato eventualmente a reggere solo per il tempo richiesto per una propedeutica alla Verità, cioè al disvelamento del mistero (come il dubbio ‘metodico’ in Cartesio).
Ma questa distinzione, la condizione che la richiede (e con l’ambiguità che la accompagna: occorre ribadirlo ancora prima di parlarne), non viene mai presa in considerazione dal pensiero laico, nemmeno quello dichiaratamente ateo, perché ritiene – in osservanza del dovere espressamente laico di salvaguardare il diritto di chiunque a manifestare qualsiasi professione di fede, come qualsiasi opinione – che non si debbano emettere condanne su ciò in cui il credente crede, ma, se mai, esprimere giudizi su un suo modo distorto di professare la sua fede… Ergendosi così, a dispetto della dichiarata laicità, a teologo di fatto!
In altre parole, il pensiero laico, nel momento in cui si fa scrupolo, giustamente, di difendere il diritto all’esistenza e alla circolazione di qualsiasi idea, e quindi si guarda bene, sempre giustamente, dal condannare la circolazione dei contenuti di qualsiasi religione (salvo, ovviamente, riservarsi ogni autonomia di giudizio), va spesso oltre questo suo compito e ‘adotta’ di fatto tali contenuti, li fa propri, nel momento in cui interviene a esternare pareri sul come dovrebbero essere correttamente interpretati e vissuti dal vero credente gli articoli di fede: dando così per scontata, non discussa, la validità (non solo la legittimità) degli stessi. Senza rendersi conto che – mettendo sullo stesso piano, nel senso di giudicarli con lo stesso metro di giudizio del credente, ‘peccatori’ (credenti) e ‘peccato’ (gli articoli di fede) – non fa alcuna distinzione tra peccato e peccatore nel senso che a questa distinzione dà invece proprio il pensiero religioso ‘tollerante’, ma esercita solo una sospensione di giudizio sul ‘credo’ nel momento in cui si prende in considerazione solo una deviazione del credente. Insomma, anche per il pensiero laico corrente, se il pensiero religioso porta spesso a forme di alienazione, non è a causa dei contenuti religiosi, ma di una loro scorretta interpretazione: magari entrando piuttosto grottescamente in concorrenza con l’Istituzione religiosa nel definire ciò che è e ciò che non è eresia… e meritando pienamente, a questo punto, e se la cosa non le fa comodo per motivi contingenti, il rimprovero mossogli dall’Istituzione religiosa di non farsi i fatti suoi, tipo – per esempio nel mondo cattolico – il “voler insegnare al Papa come si fa il Papa”! E senza nemmeno, nel caso in questione, ribattere – perché lo si considera un suo diritto, anzi il suo compito di Autorità Religiosa – che il Papa quotidianamente non si fa scrupolo di ‘insegnare’ alla società civile come si fa ad essere società civile, cosa si deve fare per essere società civile. Per cui spesso è molto più ‘laico’ un qualsiasi credente che si sia guadagnato un pur piccolo spazio di autonomia critica nel suo universo gerarchico, del laico che dovrebbe essere tale in quanto del tutto sciolto da obblighi di obbedienza a qualsivoglia autorità religiosa.
E così, invischiato in questioni teologiche che non dovrebbero importargli, vittima di una sorta di complesso di colpa, o di inferiorità, dalle origini le più svariate e impensate, nei confronti di quel ‘pensiero forte’ che è sempre l’apparenza assunta dal dogma, e da esso intimidito, questo prototipo di laico (modello per la maggioranza dei laici) spende tutta la sua laicità in una tolleranza che, doverosa come tale, finisce però per diventare abdicazione a ciò che dovrebbe costituire l’essenza di ogni laicità: il rifiuto di ogni fideismo che faccia da sfondo su cui impostare e articolare l’esercizio della ragione. E per ‘ragionevole’ che sia il suo intervento ‘discriminante’ all’interno di una militanza religiosa, se non ha come punto di riferimento una autentica laicità (la sola che rende possibile una autentica religiosità) non sarà mai in grado di coglierne la potenzialità, qualora ci fosse, in certi credenti. Se mai, dovrebbe riconsiderare il proprio laicismo e, se del caso, entrare coerentemente nelle file dei militanti della fede.

Ma questa capacità di distinzione a sua volta, qualora anche ci fosse ma fosse praticata, come prospettato, attraverso il rovesciamento speculare di una prassi tipica del pensiero religioso (la distinzione tra peccato e peccatore), si presterebbe ad una infinità di equivoci, fino a snaturarne il significato, o comunque a comprometterne fortemente la validità: come sempre accade quando si combatte un avversario adottandone le armi… cosa per altro già evidente nella necessità di adottare questo linguaggio militaresco! Risulta di difficile attuazione, in altre parole, inserirsi con volontà critica, ma con categorie interpretative tipiche del credente, in un contesto caratterizzato dalla fede religiosa e nello stesso tempo mantenere un discorso coerentemente laico: la logica del riferimento ad una Verità Oggettiva, pur rovesciando i termini del rapporto (il laicismo come Verità e il fideismo come Errore), finirebbe – e quasi sempre finisce – per prevalere. Combattere il dogmatismo con le armi del dogmatismo (ma forse anche il solo ‘combattere’, sia pure con le ‘armi’ delle idee) rende dogmatici, e si finisce per essere altrettanto schematici nei confronti di una distinzione (religiosità contro superstizione) dove lo schematismo, appunto, la contrapposizione rigida, riproduce sempre lo stesso scenario, anche dopo un mutamento di segno che in realtà è solo uno spostamento di prospettiva nell’osservare la stessa scena. Risultato di tutto questo? Qualcosa di non molto dissimile da quanto si diceva a proposito della rinuncia ad operare una vera distinzione:
si conferisce la patente di vera religiosità non tanto a chi, pur all’interno di una militanza religiosa, si comporta di fatto da laico (e che, se così si comportasse davvero, prima o poi abbandonerebbe la militanza), ma a chi fa mostra di un fideismo più raffinato, apparentemente più problematico, più spregiudicato, ma in realtà solo più sofistico, più fintamente dialettico, nel senso di tanto più disposto a confrontarsi quanto più convinto di non dover temere nulla dal confronto, di non dover mai mettere veramente in discussione le sue convinzioni, di vederle solo confermate e rafforzate, corroborate dal confronto;
si bolla invece come superstizioso chi, in genere povero di risorse culturali (e spesso povero di risorse e basta), fa mostra di una religiosità molto primitiva, diretta, tendente ad esigere un riscontro che sta tutto o quasi nella ‘lettera’ del testo sacro (o dell’insegnamento del Maestro), perché molto più pressato dal bisogno e quindi dalla necessità di dover ‘riscuotere’ il più presto possibile quanto promesso in termini di Vera Vita, che per lui può essere solo Vita Migliore. In tutti i sensi, o soprattutto proprio per i ‘sensi’. Ora, il religioso di professione, debitamente formato – e in buona o mala fede, ma in tale circostanza ad un laico non dovrebbe importare, pena l’esporsi ad un facile ricatto – condanna lui per primo quella che pure lui chiama superstizione (‘residui di paganesimo’, per il cristianesimo), ma quando si rende conto che le troppe sottigliezze teologiche con cui ‘interpreta’ la lettera possono risultare ostiche al ‘povero di spirito’, per un verso si sforza di ‘aggiornarla ai tempi e alle esigenze’, e per un altro verso qualche taumaturgo in grado di lenire direttamente e su richiesta specifica una qualche pena fisica o psichica da indicare al sofferente si trova sempre…
Ma dove sta allora la vera religiosità e dove la superstizione? E’ sufficiente rovesciare i giudizi per risolvere la questione? No, per niente. Ecco un esempio di ‘rovesciamento’:
chi è spinto da esigenze primarie, elementari in quanto vitali, dal bisogno nella sua veste più aderente alla condizione umana, e vi fa fronte confidando in chi gli parla di una vita migliore, in fondo sembra più disponibile – in quanto più bisognoso di verifiche di tale vita migliore non troppo dilazionate nel tempo (per non dire nell’eternità) – a prendere coscienza della inconsistenza di tanta promessa, e quindi in qualche modo più vicino alla possibilità di guardare all’esistenza da un’altra angolazione, vivendone il mistero senza delegarne il disvelamento ad alcuno …
mentre chi – con a disposizione gli strumenti concettuali con cui compie continuamente lo sforzo di arrampicarsi sugli specchi al fine di rendere credibile, a sé e agli altri, una dimensione della realtà che deve la sua consistenza solo al suo desiderio/volontà che esista, e invece di rendersene conto e desistere moltiplica gli sforzi per cercare di vivere questa dimensione come se fosse reale – fa mostra di una alienazione tanto più difficile da superare quanto più mascherata da sempre nuove immagini illusorie: cui sembra più che legittimo attribuire la natura di superstizioni…
In questo modo – rovesciando i giudizi in questo modo – si sarebbe ovviato ad un errore? No, per niente: questo ribaltamento di giudizio non sembra per nulla sufficiente, perché l’impressione di starsi arrampicando sugli specchi, invece di attenuarsi, sembra accentuarsi ulteriormente, e, nonostante contenga molti elementi di verità, questa analisi ha tutti i caratteri della disputa teologica, che, disputando nel nulla sul nulla, può sempre affermare tutto. Basta crederci.

E allora sembra esserci solo una conclusione: la natura della militanza religiosa è tale per cui chi la vive non ha alcuna possibilità, continuando a viverla, di manifestare una autonomia di giudizio e di comportamento nei confronti di un’esistenza il cui significato è già stato trovato da altri per lui esautorandolo da ogni ricerca che non sia quella rivolta a compenetrarsi sempre meglio e sempre più in questa Verità Rivelata. Questo ovviamente nel giudizio di uno spirito laico, che intenda essere laico, non certo nel giudizio del credente, che intende aver trovato la vera autonomia e la vera libertà nel significato che gli permette di dare all’esistenza la sua fede (e che magari, con una delle più ricorrenti e accettate mistificazioni, per non dire ipocrisie, o viceversa vivendo nella più totale ‘schizofrenia’, rivendica la sua possibilità di essere laico – per esempio come cittadino di uno stato ufficialmente laico – pur dichiarandosi credente, anzi, proprio in quanto credente!). E’ proprio qui che emerge una inconciliabilità tra le due posizioni impossibile da superare se le si vogliono vivere con coerenza …
prospettando però una contrapposizione muro contro muro che non lascia presagire nulla di buono. E però proprio questo timore, assolutamente legittimo, non può essere tacitato (o rimosso) come quasi sempre fino ad ora si è fatto, con una acquiescenza del laico, e dell’ateo, scambiata troppo spesso per liberalità da loro stessi, perché è questo il caso in cui il conflitto, invece di essere superato con una mediazione che sarà tale solo se condotta e conseguita ‘alla pari’, viene risolto con un vincitore e un vinto, creando inesorabilmente le condizioni per una sua ripresa ancora più virulenta. Se proprio, come per altro è indispensabile tentare, si vuol trovare una mediazione vera, la condizione fondamentale che occorre rispettare ad ogni costo è la chiarezza delle posizioni: e mentre la posizione del credente, proprio per la sua natura, è sempre netta, ed è inutile cercarvi all’interno differenziazioni sostanziali, quella dell’ateo, o del vero laico, soffre tuttora di un complesso di inferiorità, di un senso di colpa, che deve imparare a scrollarsi di dosso tanto più quanto più ritiene di non soffrirne. E il primo e principale sintomo è la presunzione (un complesso di inferiorità, come indica la psicanalisi, si può manifestare come presunzione di superiorità) di potersi muovere con naturalezza e capacità di presa sul terreno – ecco un’altra tipica espressione del gergo militare/militante cui non si vorrebbe mai fare ricorso – ‘presidiato dal nemico’.
Certo, in queste condizioni una vera mediazione sembra quasi impossibile, ma sicuramente peggiore di una non mediazione sarebbe – nei risultati – una falsa mediazione.




XV

Della cosiddetta creatività come imitazione-surrogato dell’operare divino.

Il mondo contemporaneo (almeno quello baciato in fronte dalla fortuna di essere il ‘primo’ mondo, vista la sopravvivenza, se non del ‘secondo’, certamente di quello che veniva chiamato il ‘terzo mondo’, sempre rintracciabile per altro anche all’interno dei primi due), non saziato da un benessere che anzi non ha fatto che aumentargli la sete – dovendo in realtà pagare un prezzo per questo benessere che ha cercato in ogni modo di rimuovere – ha creduto (e crede) ancora una volta di saziare la sete abbeverandosi, sia pure in una sua edizione riveduta e corretta, alla solita fonte del sacro: quella che da sempre non ha fatto altro che ristorare nell’immediato un uomo nei momenti in cui si trovava particolarmente trafelato e stanco, vincolandogli però in questo modo il futuro. Un futuro che vedrà un uomo sempre più trafelato e stanco quanto più avrà perseguito e creato – concretamente ma inutilmente, in tale contesto – oggettive condizioni di benessere (soprattutto attraverso la ricaduta tecnologica della scienza).
E allora, non sapendo a chi addebitare la sua insoddisfazione e il suo malessere, tanto più forti quanto più palesemente inspiegabili se collegati a tanti straordinari risultati conseguiti, ha fatto quasi sempre, e ancora una volta, appello ad una qualche tradizionale rappresentazione della trascendenza esplicita o implicita nelle varie religioni storiche, spesso tentando un sincretismo, a volte suggestivo a volte grottesco, ma sempre contraddittorio, sia sul piano teorico che su quello – l’unico poi che alla fine interessava – pragmatico.

Per la verità, c’era anche la possibilità di seguire un’altra strada, quella che aveva a suo tempo provato a cercare non fuori, ma dentro di sé, un universo cui attingere ciò che nella trascendenza più o meno tradizionalmente intesa non si trovava, e che aveva portato alla formulazione della ‘psicologia del profondo’. In quella circostanza si era preso a scrutare, con intenti dichiaratamente scientifici, al proprio interno per vedere se – riprendendo il cammino per altro che aveva portato alla nascita delle varie religioni, oltre che alla filosofia, armandosi però adesso di spirito scientifico – si potessero trovare lì le cause, quanto meno quelle immediate, di un malessere dal volto nuovo che già affiorava, e che portava a parlare di ‘disagio della civiltà’.
E in effetti molto di ciò che si cercava si trovò, ma naturalmente non tutto, soprattutto non quanto sarebbe dovuto servire per eliminare davvero il disagio… e così si cominciò a sfruttare questi risultati comunque eccezionali per ovviare alle carenze che comunque restavano (e che anzi sembravano accrescersi tanto più quanto più si scavava nel profondo) caricando questo profondo, chiamato inconscio, di virtù e poteri, di valenze positive e negative – insomma, erigendolo a ‘causa prima’ del bene e del male che accompagnano l’esistenza di ognuno – cui ricorrere come alla fonte dalla quale ricavare tante possibili verità sul comportamento umano. Ed ecco allora la nuova fonte, quella – subito tendenzialmente, e molto poco scientificamente, assolutizzata – attingendo dalla quale, pescando nella quale, si poteva far emergere il potenziale nascosto di ogni energia fabbricitaria, si poteva attingere dalla vera matrice della facoltà umana sia di autodeterminarsi che di autodistruggersi, in ogni caso di creare, nel bene e nel male, la propria esistenza. Ogni invenzione di significato, ogni acquisizione di conoscenza, ogni movente dell’azione, sembrò avere le sue radici vere, originarie, in questo luogo nascosto alla coscienza ma determinante per il suo formarsi, e tutto ciò che esigeva comunque un significato poteva essere trovato ‘aspettando’, meglio, ‘aspettandosi’ che emergesse, che sgorgasse, da questa sorgiva. Spesso inquinata, sicuramente (e per la verità questo luogo nascosto era stato esplorato proprio andando alla ricerca delle cause del male di vivere quando si manifestava nei suoi momenti più paradossali, quando cioè minacciava di stravolgere le esistenze senza che nessuna delle cause tradizionali risultasse plausibile) ma altrettanto sicuramente anche deposito di tutte le forze, di tutte le energie, che assicurano all’uomo una gamma infinita di possibilità di intervento su un che, pur nascosto, era stato comunque individuato come collocazione: era collocato nell’io, nel soggetto. Sembrò così davvero che questo viaggio al proprio interno, invece di concludersi, tradizionalmente, secondo la tradizionale introspezione (e secondo gli insegnamenti di tutte le religioni) in un proiettare sé oltre se stessi, e tanto più lontano da sé quanto più si voleva controllare e dominare questo sé, fosse finalmente approdato in un luogo che, per oscuro, per magmatico che fosse, non pretendeva di recuperare una qualche luminosità rimandando ad altro da sé, spingendo a fuggire inorriditi da sé, ma proponendosi come l’unico vero terreno di ricerca, disposti ad accettare con obiettività scientifica qualunque rinvenimento, per sconcertante che fosse.
Insomma, sembrò una vittoria dell’immanenza sulla trascendenza, almeno quando la questione si presentava come inscindibile dalla esigenza – che ha dato origine alla psicologa – di ricercare i moventi dell’agire umano.
E così davvero poteva, e potrebbe, essere. Ma così non fu, e non è. O lo fu, e lo è, in modo equivoco, non riuscendo ad evitare la sacralizzazione anche di questo luogo.


In che modo e in che senso? Essendo l’inconscio, per definizione, ciò che è al di là della coscienza, o che comunque sfugge alla coscienza, e però nello stesso tempo essendo riconosciuto come ciò che guida, orienta, in realtà domina la coscienza, ha finito per assumere tutti i caratteri di una forza nascosta – che si rivela solo per sintomi indiretti, e tanto più indiretti quanto più si presume di stabilire un rapporto visibile di causalità; che agisce comunque sempre su di noi senza che se ne possa controllare e condizionare l’impulso originario – la cui analogia con i caratteri del divino, del sacro, erano troppo evidenti perché non finissero per suggestionare tutti quanti, pur incamminatisi lungo la strada della ricerca di un sé liberato, più che dal mito, ‘nel’ mito, al mito, alla mitopoiesi, non potevano certo rinunciare. Cioè tutti quanti, impegnati in attività ‘creative’, comunque formalizzate e finalizzate, vivevano l’esperienza, esaltante e sconcertante nello stesso tempo, della gratuità, intesa come assoluta imprevedibilità, del momento propriamente creativo… che ‘compariva’ del tutto casualmente, quindi non condizionato da alcun atto di volontà, se non quello, contraddittorio come atto di volontà, di imporsi una cosa sola: porsi in attesa, in ascolto, con-fidando in un avvento che si poteva desiderare con tutte le forze, ma che si poteva, proprio per questo, solo sperare, ‘provocare’, solo fidando con tutto se stessi in un atto di fede. Insomma, l’atteggiamento classico del credente…
che, nel caso in questione, individua un oggetto di fede del tutto nuovo rispetto alla tradizione fideistica, ma con le stesse funzioni, caricato degli stessi poteri, del sacro tradizionale. E’ pur vero infatti che si può essere consapevoli della matrice immanente di ogni atto creativo, che si può avere una ragionevole fiducia in una scienza psicologica che ha intrapreso un percorso di analisi finalizzato proprio a far emergere questa dimensione occultata alla e dalla coscienza per capirne, non solo le conseguenze sulla coscienza stessa, ma proprio le cause, o comunque le circostanze, del suo formarsi, tutte ritenute, quali che possano essere, legate all’esperienza… ed è vero infine che, per imprevedibile e casuale che risulti l’accadimento creativo, se ne ricavano pur sempre ‘oggetti’ di cui si può ritenere di conoscere il luogo di provenienza, anche se non se ne conoscono con verificabilità scientifica le dinamiche che l’hanno prodotto… ma basta molto poco per lasciarsi suggestionare da un’esperienza che in definitiva è pur sempre vissuta come condotta sotto il dominio, o comunque il condizionamento decisivo, di qualcosa che si può solo sapere esistente, ma la cui natura vera, la cui essenza, resterà sempre nel mistero. Di più, che si manifesta a noi solo se lo si evoca con un atteggiamento che esige una sua ritualità caratterizzata da una sorta di straniamento il quale, anche se non più romanticamente idealizzato, proietta pur sempre in un altrove in cui tutto sembra accadere come in una sorta di sogno cosciente…
e però a tutto questo si continua a dare il nome, a questo punto totalmente ambiguo, di creatività. Solo per analogia?
E’ difficile crederlo. ‘Creare’ significa da sempre, anche quando se ne parla in senso figurato, metaforico, dare esistenza a qualcosa che, non solo prima non c’era, ma che sgorga da una volontà completamente autonoma, non condizionata da altro che da se stessa, assolutamente originale perché originaria; ora, propriamente tale potere viene riconosciuto ovviamente solo ad un ente trascendente i limiti umani (di un uomo cui compete da sempre, al contrario e appunto, il titolo di ‘creatura’), ma quando si crede fermamente che tutto ciò che ha esistenza è dovuto ad una entità ben definita chiamata dio, anzi Dio, occorre poco per applicare quella proprietà transitiva per cui, chi è trasceso, proprio per questo partecipa direttamente di quella volontà di cui è sì ‘oggetto’, ma nello stesso tempo manifestazione integrale. L’essere trascesi, da un lato toglie ogni autonomia, ma proprio questa mancanza totale di autonomia, ‘libera’ il trasceso da ogni responsabilità, lo porta a considerarsi tutt’uno con la causa prima della propria esistenza e del suo snodarsi. In questa prospettiva anche il cosiddetto ‘libero arbitrio’ – uno dei più contorti concetti elaborati dai teologi nel disperato tentativo di conciliare libertà e necessità – viene tolto di mezzo per lasciare il posto ad una totale identità di libertà e necessità, per cui non occorre nessuna conciliazione, nessuna mediazione, mentre ogni attività esercitata sotto questa luce brilla dello stesso splendore che compete alla divinità. Il grande artista (ma anche il grande scienziato, il grande pensatore, il grande statista ecc., insomma tutti quanti si possono fregiare del titolo di ‘grande’, anzi, molto spesso, non a caso, di ‘divino’) e il grande mistico in realtà sono tutt’uno…
per cui non è certo ritenuto un abuso parlare per il loro operare di ‘creatività’. Che non è naturalmente la creatività del Creatore, ma ne ha tutti i crismi… ‘per partecipazione’! E altrettanto naturalmente tale creatività solo nel momento in cui viene esercitata veramente solleva l’uomo alla stessa altezza del Creatore, mentre al di fuori di questi momenti anche il grande artista torna ad essere il povero mortale esistente solo per il tempo che gli è concesso per espiare la sua colpa di esistere: da qui il suo tormento, tanto più grande quanto più alto e potente è stato l’impulso creativo (‘Il tormento e l’estasi’ è non a caso il titolo di una, non importa quanto commerciale, rappresentazione del dramma esistenziale di Michelangelo). Da qui quella fenomenologia del ‘genio’ che mai, per dritto o per traverso, è stata in grado di rinunciare ad una sacra meraviglia, o ad una meraviglia del sacro, che finisce pur sempre per evocare piani di esistenza umana che non possono che trascendere l’umana esistenza.
Ora, quale prova migliore, anche semplicemente riferendosi all’ambiguità semantica del termine ‘creare’, della proiezione dell’insopprimibile esigenza dell’uomo di esorcizzare il male, o la fatica, di vivere (di uscire dai limiti di un divenire che prima o poi, ma inesorabilmente, si arresterà con l’arresto della sua coscienza assieme al disfarsi del suo corpo) in una dimensione in cui questa esigenza venga finalmente soddisfatta? Cioè oltre il puro piano dell’esperienza ma pur sempre attraverso un’esperienza, vale a dire andando al di là di se stessi ma restando pur sempre se stessi, considerando oltre tutto l’inevitabile incongruenza come la ‘prova’ che si sta veramente ‘aldilà’, altrimenti che aldilà sarebbe se fosse come l’‘aldiqua’? Insomma, come non vedere in tutto questo il circolo vizioso che contrassegna ogni tentativo di fondare una qualche trascendenza, e ad alimentare il quale concorre in modo determinante l’‘interpretazione’ della facoltà creativa?

Circolo vizioso che nemmeno l’inversione di rotta tentata dalla ‘psicologia del profondo’, o comunque resa possibile da questo delimitare l’indagine su un disagio esistenziale continuamente riemergente ad una interiorità considerata tutta costituita dall’esperienza, ha saputo evitare. L’inconscio non ce l’ha fatta a restare semplicemente tale, cioè il limite mobile che caratterizza ogni esperienza: la sua natura magmatica, il suo essere una specie di pozzo senza fondo, ha finito per togliere il respiro a quanti vi si erano avventurati puntando a trovare un fondamento, una base, e che si sono trovati invece sull’orlo di un baratro. Guardando dentro con l’intento di restare ancorati all’esperienza (da cui l’impostazione scientifica), si è trovato, invece del suo limite, l’abisso senza fine che sempre si trova quando si è mossi da un’esigenza esistenziale presumendo di poterla soddisfare come tale in una esperienza. E guardando nel ‘profondo’ si può sprofondare allo stesso modo con cui, guardando ‘in alto’, si può trascendere, ed è così che si fa l’esperienza di un mistero che – invece di essere vissuto per quello che è, vale a dire l’orizzonte invalicabile che ogni orizzonte, per mobile che sia, deve rappresentare pena il proiettarsi, il perdersi, nel nulla – si ritiene di poter ‘abitare’ sia pure al prezzo di ‘uscire da sé’.
Ecco allora che l’attività creativa (intesa nella sua gamma più ampia, coincidente come tale nell’esercizio dell’immaginazione, quale che sia l’oggetto che con essa si intende plasmare) viene rigettata in questa aura misticheggiante, viene innalzata al di sopra di ogni riferimento all’esperienza solo perché l’indagine ‘scientifica’ non è stata in grado di giungere ad una conoscenza, che si esigeva ‘oggettiva’, cioè da accettarsi comunque, ma che in realtà si perseguiva per alleviare una pena, per uscire da quei limiti che invece costituiscono la possibilità vera del darsi di ogni scienza correttamente praticata… e che pertanto la scienza non deve, perché non può se intende restare tale, superare.
E invece ancora una volta viene strumentalizzata, rischiando tra l’altro di veder messo in dubbio il suo stesso fondamento, per tentare ‘con più concretezza’ di varcare la soglia dell’esperienza. Per disporre di un mezzo di trasporto più affidabile rispetto alle sempre più logore, alle sempre più asfittiche carrozze apprestate dalle religioni tradizionali quando dovrebbero servire per adeguarsi alla ‘velocità dei tempi moderni’: cioè a un processo di immanentizzazione che si impone nel momento stesso in cui impone, in quanto mai davvero accettato, una resistenza allo stesso.
E così si esalta la creatività, anzi, incuranti del grottesco di una tale incongruenza, la si pianifica e la si impone (esistono proprio le scuole dove si insegna ad essere ‘creativi’, con tanto di programmi, corsi, verifiche, voti e attestati finali), nel momento stesso in cui si ritiene di riscontrarla veramente, di riconoscerla come tale, solo se consente di rimandare ad una matrice tanto misteriosa quanto certa, intendendo però con questo di essere approdati in una dimensione trascendente, di starsi abbeverando ad una qualche fonte sacra. Chiamata inconscio, ma intendendo con questo termine alludere ad una dimensione che con la coscienza in realtà non ha niente a che fare, nel senso che, essendone ritenuta, correttamente, la causa vera, diretta, ma né veramente identificabile – se non in qualche suo utilissimo, ma inevitabilmente parziale, momento – né veramente condizionabile, non resterebbe altro che rivolgersi ad essa inventando qualche nuovo rituale adeguato alla novità, ma pur sempre con la funzione di propiziarsela, di perorare la grazia per una ‘partecipazione’ che ci proietti nel suo empireo sacrificando se stessi, cioè la propria povera identità così malamente riposta in una coscienza tanto inadeguata per le sue stesse aspirazioni.
E così, ancora una volta, per esorcizzare il nulla che circonda le nostre esistenze, si popola questo nulla di fantasmi la cui necessità esistenziale è scambiata per necessità di una trascendenza: col solito risultato di dare corpo alla propria ombra senza rendersene conto, e vanificando così la funzione che potrebbe essere veramente terapeutica della fatica, o del male, di vivere insita nell’attività cosiddetta creativa…
Accostandosi infatti ad ogni frutto della cosiddetta creatività come ad un oggetto sacro, e reso sacro da un operare che si ritiene abbia ‘trasfigurato’ l’artefice, il quale pertanto va venerato a sua volta, comporta uno sforzo per separare l’‘umanità’ dell’artefice – anche qualora la si ritenga l’humus che ha tenuto in incubazione il germe della sua opera – dalla sua ‘divinità’, che invece di permettere di godere veramente, di fruire pienamente, il frutto della cosiddetta creatività, lo fa diventare, assieme al suo autore, fonte di alienazione. L’esaltazione che ne può derivare – merito innegabile dell’opera – invece di trasformarsi (come per fortuna, nonostante tutto, anche avviene) in una spinta altrettanto creativa ‘pescando’ nella propria umanità così felicemente sollecitata, cioè nella storia della propria esistenza arricchita di uno specchio che ce la rende più visibile, spesso non fa altro che annichilire, che dare adito a folle di adoratori tanto più passivi, e manipolabili, quanto più adoratori. Veri e propri feticisti.
Il cui feticismo si può manifestare in svariati modi, tutti comunque ravvisabili in qualche culto, anche se il culto dei culti, quello che più di ogni altro ha continuato a contrassegnare – senza scalfirla più di tanto nonostante i reiterati tentativi (evidentemente mal condotti) operati dalla modernità – la sudditanza fideistica nei confronti della creatività, è la difesa ad oltranza, il culto sempre invariabilmente rinnovato e frequentato, dell’originale, cioè dell’opera d’arte sacralizzata come unicità non profanabile, non riproducibile, a dispetto di una domanda di consumo della stessa enormemente accresciutasi con l’accrescersi sia del benessere che dell’istruzione, e a dispetto della disponibilità di mezzi tecnici ormai del tutto in grado di rendere quasi perfetta una sua riproduzione. Cosa è accaduto in realtà? Per un certo aspetto la riproduzione, proprio in quanto spesso copia incredibilmente fedele dell’originale, è diventata essa stessa oggetto di culto ‘come se’ fosse l’originale, non contribuendo cioè in alcun modo a sminuirne la ‘sacralità’, ma solo a renderla più agevole da venerare; per altro, vedendo la stessa cosa da un altro angolo visuale, proprio questa disponibilità non in grado come tale di operare una salutare smitizzazione, ha di fatto solo aumentato quantitativamente il numero dei celebranti, dando vita ad un vero e proprio ‘culto di massa’, alla massificazione di una non fruizione di cui si incolpa la cultura di massa in quanto ‘di massa’, tendente cioè a soffocare le esperienze privilegiate, elitarie, ad appiattire tutto, senza invece tener conto che si tratta solo di una non fruizione da sempre predominante diventata come tale modello da imitare da parte dei nuovi arrivati. La massificazione, se mai, potrà esercitare un condizionamento negativo per quanti potenzialmente sarebbero orientati a fruire senza feticismi l’opera d’arte, ma questo non è tanto da imputare alla massificazione come tale quanto al carattere che ha assunto, al modello cui ha ritenuto di doversi uniformare.
In sostanza ancora un’occasione sprecata per la modernità: sempre condannata come tale, per ciò che si afferma non poteva che essere, e mai per ciò che avrebbe dovuto e potuto essere e invece non è stata.



XVI

Per una più libera, ma soprattutto più utile, interpretazione dei Vangeli da parte del pensiero ateo.

Occorre molto coraggio, per certi aspetti molta improntitudine o presupponenza, nel non tener conto, per una interpretazione e per un giudizio sui Vangeli, di quanto è stato prodotto nel tempo a questo proposito, data la mole, l’impegno e l’intelligente dispiego di passione di tale produzione. Nessun pensatore operante in area cristiana, quale fosse il livello della sua speculazione, si è potuto esimere dal prendere nella massima considerazione un documento di così grande impatto sociale ed esistenziale, e per questo dal venirne inesorabilmente condizionato ben al di là della ‘lettera’ del documento stesso. Domanda: è possibile allora recuperare la necessaria autonomia di giudizio di fronte a questo documento, sia pure scontando il carattere necessariamente sempre parziale di queste autonomie, il loro essere pur sempre un’esigenza destinata a rimanere tale? Forse no, ma per sapere della questione ciò che è indispensabile sapere, è indispensabile provarci. In che modo?
Si può cominciare col considerare che qui, a rispondere all’esigenza di mettere intanto un po’ d’ordine, di fare il punto, tra le infinite esercitazioni esegetiche, di fronte a un testo che tanta eco ha suscitato e tante conseguenze ha prodotto nella storia dell’umanità degli ultimi due millenni, ci si è impegnata soprattutto l’istituzione ecclesiastica, cioè, direttamente o indirettamente, il potere. Con accenti diversi, soprattutto, da un certo periodo in poi, a seconda che si trattasse di cattolici o protestanti, ma col comune intento di non lasciare a se stesso un eventuale lettore che, senza guida, avrebbe potuto farsi condizionare: ovviamente da altro che non fosse il potere. Così, in questo caso specifico, non sono certo mancate le scelte radicali, ‘forti’, per non lasciare troppo spazio al proliferare delle opinioni. Quali che ne siano stati i modi e i mezzi, quindi – dall’autorità temporale e spirituale legittimata da una tutt’altro che dimostrata delega divina, alla definizione di un limite per procedere, sempre legittimamente, al di là del quale non occorreva alcuna garanzia diversa dalla testimonianza di fede – l’appello alla trascendenza e alla fede in essa ha giocato a favore di una lettura in ogni caso mai ‘debole’, sempre impegnata a non perdersi per strada, a raggiungere comunque il porto del giudizio. Con la conseguenza che nessuno, in area cristiana, si è potuto ‘permettere il lusso’ di non prendere sul serio questa narrazione, se non altro perché, essendosene impadronito il potere, con esso si dovevano fare i conti prima ancora che con la narrazione stessa. Quindi, buona parte della ‘estraniazione’ rispetto al testo originario – prima ancora di ogni altra questione riguardante l’ermeneutica, o comunque decisiva per l’ermeneutica stessa – è da rinvenirsi in questa impronta ‘forte’ dovuta alla forza del potere.
Ma di che narrazione si tratta? Si potrebbe non prenderla sul serio, o quanto meno non più sul serio di tante altre, visto che pur sempre di un documento storico si tratta, e che parla di eventi accaduti nel tempo? E la necessità di prenderla sul serio è dovuta soltanto all’incidenza dell’intrusione così massiccia e dispiegata del potere?…
Anche, sicuramente, ma il potere ha avuto gioco facile per la sua intromissione in quanto ha potuto sfruttare le vera peculiarità, che è poi l’ambiguità, di questo testo (e quindi non è riconducibile tutto solo al potere): la commistione di mito e di storia che lo impronta senza che si possa drasticamente optare (chi ci ha provato, non è stato a sua volta molto convincente) per l'uno o per l’altra. Che non si tratti di un puro mito è comprovabile in mille modi, non ultimo la convergenza sostanziale circa i fatti di tanti storici-cronisti, riconosciuti ufficialmente o meno che siano. Ma proprio questa indiscussa storicità sembra superare tutti i limiti congeniti della ricostruzione storiografica facendo il testo continuamente appello ad una dimensione a-storica, o meta-storica, che spiazza in partenza ogni pretesa di correttezza filologica, mettendone a nudo con sapientissima ingenuità – cioè senza affrontare di petto la questione, anzi sorvolandola con assoluta noncuranza, come si conviene a dei ‘non addetti ai lavori’ – la sostanziale inutilità. E così l’intreccio, la sovrapposizione, di due costruzioni, sia pure in modo diverso necessarie e nello stesso tempo arbitrarie (il mito e la storiografia), invece di incrementare la necessaria circospezione circa l’attendibilità della narrazione, ne ha moltiplicato la capacità di presa, l’insopprimibile suggestione. Dando vita ad un circolo tanto più virtuoso quanto più vizioso, in grado in ogni caso di reggere a qualsiasi attacco ‘scientifico’, perché in grado di sfuggire a qualsiasi tentativo di formalizzazione in questo senso. La ‘lettera’ e lo ‘spirito’ nei Vangeli si rincorrono, e si vengono in aiuto, offrendosi al lettore con tutta la disponibilità possibile in merito a questo continuo surrogarsi, mentre l’istituzionalizzazione (storicizzazione, codificazione) sempre perseguita e, da un certo momento in poi continuamente realizzata, della interpretazione e del giudizio (cioè l’intervento del potere, in senso stretto, politico, ma anche come cultura dominante) ha fatto il resto. In che senso?
Nel senso che questa istituzionalizzazione è stata in grado di trarne conseguenze pratiche (sociali, politiche, economiche, culturali) per la società a tal punto che queste conseguenze hanno finito a loro volta per costruire come una sorta di cappa protettiva inscalfibile del testo; e chi avesse tentato, o tentasse, di scalfirla, ha rischiato e rischierebbe di porsi fuori senza rimedio dalla comunità cristiana, cioè da tutta una tradizione negando la quale è venuto e verrebbe a trovarsi fuori – perché fatalmente proiettato in una solitudine dalla quale era ed è altrettanto difficile non farsi condizionare, nella quale era ed è difficile non alienarsi – da gran parte di ciò che lo definiva e lo definisce storicamente, cioè che definisce l’esistenza di ognuno nel proprio tempo. Gran parte, non tutto, evidentemente, ma quasi sempre ‘troppo’.
E nemmeno la perdita progressiva di influenza diretta (potenziando però così quella indiretta) sulle coscienze del dio di cui nei Vangeli si narra la manifestazione nella storia, ha tolto vitalità a un testo che ha continuato e continua ad ispirare credenti e non credenti (spesso per la verità sempre più ‘pseudo’, gli uni e gli altri, nel senso che si rincorrono e si scambiano i ruoli senza per altro mai identificarsi davvero né negli uni né negli altri), incurante, questa vitalità, di tutti gli abusi perpetrati in suo nome contro quegli stessi uomini che il dio aveva dato incarico al figlio di redimere e salvare.
Incurante, perché in grado di superarlo, anche dell’attacco più insidioso portato alla sua capacità di presa: quello costituito dal cosiddetto libero esame
E c’è chi è ancora in attesa di conoscere cosa potrebbe uscire da un vero libero esame, illudendosi oltre misura sulla possibilità di riconquistare, o finalmente conquistare, un’autonomia di giudizio che sembra ormai tutta compromessa, da un lato dalla monopolizzazione dell’istituzione religiosa, dall’altro da una così imponente mole di opere, materiali e ‘spirituali’, da, e a, quel testo ispirate, da ergersi, ormai, come ostacoli insormontabili di fronte ad ogni pretesa di non farsene condizionare. E il “non possiamo non considerarci tutti cristiani”, affermato autorevolmente da qualcuno ascrivibile, per tanti aspetti del suo pensiero, all’universo ateo, può essere considerato il suggello definitivo di questa resa incondizionata.
E così il racconto evangelico è ancora lì, tirato da tutte le parti come la classica coperta troppo corta, ma senza che nessuno – operante in area cristiana – si senta veramente in grado di poter rinunciare a questa coperta. La quale, dopo tutto, sta a simboleggiare – al di là delle legittimazioni ex post tipiche dello storicismo – un circolo vizioso a suo modo classico per ogni opera che ha resistito, diventando appunto ‘classica’, più di altre nel tempo: superata una certa durata – per ragioni a volte raccomandabili a volte no – non ha più avuto bisogno di legittimarsi per il suo contenuto in quanto a sostenerne la capacità di presa sui lettori basta il tempo. Tempo storico, naturalmente, che, prima o poi sancirà anche la sua scomparsa, ma fin che quel testo sarà in grado di travestirsi da eternità in modo credibile, ‘umanamente’ (in qualche modo razionalmente) compatibile, di circolare cioè nell’opera come trascendenza-immanenza – un piede in cielo e uno in terra – la terrà a galla e obbligherà ognuno ad andarsela a rileggere.
E però…
Però suona decisamente stridente considerare i Vangeli – come per altro ogni testo che viene considerato sacro in senso proprio, diretto, non figurato – un ‘classico’: sembra solo un espediente per evitare un impatto emotivo ben più coinvolgente di quanto possa produrre qualsiasi altro classico, quali che siano le connotazioni inevitabilmente soggettive che possa assumere questo impatto. E questo perché – non c’è altra spiegazione, che poi è quella solita – questo testo ha in sé una dose di ambiguità tale da resistere ad ogni sforzo per tentare di scioglierla. Ma è a questo punto che bisogna ribadire quanto necessario sia produrre comunque tale sforzo. Puntando su cosa?
Se non a sciogliere l’ambiguità, a renderla quanto meno il più possibile identificabile come tale, a individuare in cosa potrebbe consistere, soprattutto confrontandola con quella di altri testi sacri di cui però non si subisce lo stesso fascino (operazione che dovrebbe ovviamente mantenere in linea di principio tutta la sua validità con qualsiasi testo definito e ‘vissuto’ come sacro e confrontato con altri testi sacri: l’importante è indagare il perché di questo fascino, da qualunque fonte provenga). Nel caso specifico, si tratta di vedere, rivedendolo, perché anche un ateo convinto – dopo aver considerato tutto quanto c’era da considerare partendo da una prospettiva tradizionalmente atea – possa affermare “di non potersi non dire cristiano”: ma non per negare questa affermazione in sé, quanto, piuttosto per sottolineare come tale affermazione trova la sua piena validità proprio solo perché a farla è un ateo. Non, cioè, per le pur valide ragioni che, per affermare questo, può accampare uno storicista, e nemmeno incentrando l’attenzione su una ambiguità intesa fondamentalmente come ambiguità semantica, per valido che anche questo atteggiamento possa essere; e nemmeno, infine, mettendone in evidenza tutti quei limiti concettuali che stridono tanto con il più approfondito sforzo speculativo quanto col più comune buon senso: lo sforzo vero che occorre fare è quello di recuperare dei Vangeli tutto quanto è possibile recuperare in termini di dispiegamento in essi di umanità, di sforzo presente in essi, più o meno inconscio ma rintracciabile, per rivendicare, paradossalmente ma non tanto, proprio tutta l’autonomia dell’umano rispetto al divino, il desiderio nascosto di liberarsi del, e dal, divino. Cosa che solo un ateo può fare, perché il credente, anche il più in buona fede e con la sensibilità per capire appieno quanto ‘umano’ sia questo testo, ascriverà pur sempre questa ‘umanità’ e la sua valorizzazione a un intervento divino, mancando il quale l’umano non si sarebbe alzato più di tanto dalla sua ferinità, cioè dalla sua ‘colpa’. Con ottime ragioni, se, appunto, si guarda alla grande messe di benefici che in nome dei Vangeli l’umanità ha comunque potuto trarre, ma con un pregiudizio di fondo che ha sempre finito per vanificare questi indubbi benefici. E proprio per questa differenza sostanziale per quanto riguarda l’interpretazione, e quindi l’‘utilizzo’, dei Vangeli. Un laico, un non credente – ma anche un credente – potrebbe ritenere che in fondo questa differenza all’atto pratico è poco più che formale per quella categoria di ‘uomini di buona volontà’ che si è convenuto accomuni, possa accomunare, appunto, credenti e non credenti… e certamente di fronte a scadenze cruciali (catastrofi naturali, ma soprattutto guerre, sfruttamenti, violenze di qualsiasi tipo perpetrate dall’uomo verso i propri simili, cioè verso se stesso) questo considerarsi, credenti e non credenti, prima di tutto ‘uomini di buona volontà’ ha dato frutti preziosi… ma questa molla umanitaria è scattata sempre, appunto, solo in situazioni contingenti, di fronte all’emergenza. Finita la quale – ecco il punto – le condizioni ‘strutturali’ perché tali emergenze si riproducessero più o meno sempre le stesse, non erano mai veramente affrontate, e proprio perché si riteneva di dovere prima di tutto rispettare la natura divina del messaggio evangelico, non pretendere cioè di strumentalizzarlo per finalità ‘troppo umane’. In altre parole, il messaggio, che è fondamentalmente un messaggio di amore e fratellanza, dei Vangeli, deve mantenere, per l’ortodossia religiosa, tutta la sua derivazione trascendente, pena il perdere il suo benefico influsso: lo si può sempre (e qui di nuovo un ruolo decisivo lo gioca l’istituzione religiosa che non vuole perdere la sua capacità di presa) ‘prestare’ anche ai non credenti, ma sappiano questi che di un messaggio divino si tratta, e per l’umanità l’unica forma di riscatto resta pur sempre legata ad una colpa dalla quale l’uomo da solo, senza la fede in dio, mai potrà mondarsi. Tanto è vero che – eccolo il micidiale circolo vizioso, l’effetto che diventa la causa e viceversa! – ricade sempre nelle stesse colpe.
E così, come già si è avuto modo di considerare (v. par. III), il testo sacro per alcuni aspetti forse il meno sacro di tutti – in quanto contempla sì il sacri-ficio, ma azzarda uno scenario dove il sacrificio riguarda la divinità stessa, addirittura contempla la morte (poi necessariamente rientrata, ma intanto la provocazione, ‘lo scandalo’, erano stati lanciati) del figlio di dio perché l’uomo si salvi – resta alla fine, nonostante tutto, un testo fondamentalmente inerte…
e lo resterà fino a quando, sfruttando e forzando, da laici, ma soprattutto da atei, proprio tutti quei momenti presenti nella storia delle sue interpretazioni che (consapevoli o meno che i loro autori ne siano) rivendicano una qualche forma di autonomia di giudizio, non si libererà l’umano dal divino. Lutero, a suo tempo, contro il potere religioso, affermò che non ad esso, come cristiano, riteneva di dover rendere conto, ma solo alla propria coscienza: fu uno sforzo senz’altro meritorio, ma non liberando la sua coscienza, e quella dei suoi seguaci, dal dominio della trascendenza, il riferimento al testo evangelico in questo nuovo contesto non contribuì più di tanto a introdurre davvero l’amore e la fratellanza fra gli uomini. Anzi, servì solo – e a credenti e non credenti! – per offrire la copertura ideologica a quel modo di produzione capitalistico che non solo, come si afferma sempre, dei Vangeli non ha né lo ‘spirito’ né la ‘lettera’, ma che, proprio per questo, si propone come il campione della cosiddetta secolarizzazione…
Secolarizzazione in realtà tentata, sentita confusamente come esigenza, ma mai veramente avvenuta. Anche, e per certi aspetti soprattutto, per la resistenza oppostavi da un documento storico, i Vangeli, rimasto avvolto in una ambiguità che, da un lato ha scoraggiato chi ha inteso superarla in assoluto, dall’altro è stata sempre sciolta a senso unico: in favore della sua origine divina.

 

 

 

XVII

Del virtuale come mitizzazione del mito.

Del mito, inteso come l’eterno racconto che l’uomo cerca di organizzare su di sé e sul mondo, per supportare e sopportare l’esistenza di sé e del mondo, si sono studiate tutte le componenti, tutte le possibili motivazioni, tutte le articolazioni. Sono stati svelati anche molti degli stratagemmi, spesso veri e propri sotterfugi, cui il mito ricorre per camuffarsi da ‘altro da sé’, per farsi accettare come ‘altro da sé’ (ultimo possibile camuffamento – eccezionalmente suggestivo proprio perché tendente a presentarsi come la negazione definitiva di ogni mitologia – il pensiero scientifico), ma non essendo stato dato il giusto peso, la priorità che gli spetta, all’essere la mitopoiesi un’esigenza insopprimibile, strutturale alla condizione umana, il mito, tanto più riaffiora incontrastato nella sua funzione alienante, quanto più si crede di saperlo tenere sotto controllo. Attualmente si propone – mentre continua, non contrastato, anzi potenziato, a offrire i suoi racconti, sia pure, come sempre, ‘contestualizzati storicamente’, alle mitologie con cui continuano a prosperare le varie religioni – con un camuffamento straordinariamente intrigante, tipico di questo nostro tempo orientato ad affrontare tutto quanto, dei mali che lo affliggono, non è stato in grado di superare, adottandolo. Con quale intento? Sperando in questo modo di neutralizzare definitivamente quanto non è stato in grado di eliminare, in realtà rimuovendolo nel momento stesso in cui ritiene di averlo assimilato. Così il mito, dopo essersi impossessato di tutti gli strumenti che gli può offrire la scienza-tecnica, con un funambolico testa-coda, in un circolo vizioso tra i più stupefacenti, è riuscito a costruire il mito di se stesso. Non riuscendo a dare altra spiegazione a questo bisogno della natura umana di inventare storie che non fosse, tautologicamente, il bisogno di inventare storie, la cultura attualmente egemone, dopo aver sondato, e continuando a sondare, il sondabile su tutti i moventi possibili, soprattutto dopo aver provato a interpretare, e continuando a provare a interpretare, l’interpretabile per capire cosa andassero celando queste narrazioni, cosa intendessero davvero al di là di una ‘lettera’ assolutamente improponibile come tale, paradossalmente ha permesso, e continua a permettere, al mito di riconquistare una sostanziale autonomia. E lo ha fatto, e continua a farlo, facendo rivivere come collante sociale quella mitizzazione del mito che una nostalgia invincibile di una – per altro mai sperimentata se non come desiderio – età dell’oro, aveva spinto molti ad inscenare quando si erano provati a definire i caratteri che esso avrebbe avuto all’alba del suo apparire tra gli uomini. E così, forte della sua inaccessibilità, il mito ha ripreso a condizionare negativamente ancor più che in passato le vicende umane, fino a costruirsi una sua nicchia perfettamente protetta e inattaccabile. Dotatosi di uno scudo ancor più mitico di quello splendido concentrato di favole che Omero aveva immaginato di offrire ad Achille per controbilanciarne l’ira distruttiva, vi ha apposto un’insegna in grado di scoraggiare ogni critica perché in grado di prevenirla, di spiazzarla sbandierando quanto fosse consapevole, avendola già messa nel conto, di ogni possibile critica, e ha chiamato questo suo capolavoro con il nome più appropriato, ma proprio per questo più ambiguo: ‘realtà virtuale’. Il virtuale.
Intendendo con virtuale non tanto, come si era inteso in un recente passato, un mondo del ‘dover essere’, in senso kantiano, oppure del ‘voler essere’, in senso nicciano, o infine del ‘desiderare che sia’, in senso freudiano, ma proprio, come sintesi e superamento degli altri tre, un ‘mondo virtuale dell’essere’, cioè reale in quanto virtuale, vero in quanto finto. Straordinaria conquista se ciò significasse – come, per gli sforzi di qualcuno, prova pur sempre a significare – la consapevolezza della necessaria autoreferenzialità di ogni rappresentazione del mondo…
straordinario autoinganno se invece finisce per significare – sia pure a vari livelli di adesione – il vero mondo reale perché virtuale: quindi da vivere senza residui o ripensamenti in conformità con questa virtualità. Autoinganno perpetrato sfruttando ciò che da sempre ha consentito all’uomo di costruire significati inventandoli, cioè la mitopoiesi, potenziata però ora oltre ogni immaginazione da una tecnologia in grado di riprodurre, e quindi manipolare a piacimento, fin nei minimi particolari, la cosiddetta realtà al punto da ‘oggettivare’, da rendere verificabile da chiunque e senza alcuno sforzo, ciò che poeti, filosofi, scienziati, infine religiosi, si erano sempre sforzati di comunicare, cioè l’esperienza dell’esistenza, al di là dell’apparenza, di un ‘altro mondo’: un mondo che poteva soltanto essere costruito con l’immaginazione, pertanto difficile, se non impossibile, da vivere come esperienza normale, quotidiana, da vivere, insomma, davvero, sul serio, ‘come esperienza reale’. Se non, appunto, alienandosi. Ora invece, mezzi sofisticatissimi (e risultato di straordinari sforzi speculativi, di un uso strumentale del pensiero assurto a concreta realizzazione di strumenti) sono diventati docili strumenti in grado di rappresentare a comando – con perfetta verosimiglianza perché in grado di riprodurre alla perfezione ogni possibile scenario – ogni realtà immaginata. Per immaginare il mondo, non c’è più bisogno di immaginazione: o meglio, posso immaginarlo e posso oggettivarlo esattamente come lo immagino, nessuno scarto tra immaginazione ed esperienza. Insomma, una specie di reificazione, di traduzione ‘dalle parole (dalle idee) ai fatti’, dell’assunto idealistico “non esiste altra realtà se non in quanto pensata”.
Si può dire allora, come tanti profeti del passato denunciano stracciandosi le vesti, che “la tecnica ha ucciso l’immaginazione”? Sì, ma quasi mai col significato che a tale affermazione intendono dare questi profeti. Da molti punti di vista e a ben vedere, infatti, al contrario, l’immaginazione è stata potenziata al massimo dalla tecnica ben oltre quelli che erano i suoi riconosciuti poteri. E’ proprio l’immaginazione che ha vinto la sua battaglia con la cosiddetta realtà, proponendosi come in grado, non solo di surrogarla nei suoi aspetti più deficitari se rapportati alle nostre esigenze (da cui la insopprimibilità del mito), non solo di condizionarla interpretandola, forzandola e plasmandola sul modello delle nostre idee (ideologie) sulla stessa, ma proprio di rimpiazzarla in tutto e per tutto. E’ il sogno faustiano realizzato senza bisogno di vendere l’anima a nessun Mefistofele. L’immaginazione, quindi, non è affatto morta: ha solo mutato radicalmente la sua funzione, ha potuto operare quel passaggio ‘dalle parole ai fatti’ che le è sempre stato imputato di impedire, di ostacolare, così che ora può regnare sovrana e non essere più chiamata in causa solo per sopperire ai deficit della cosiddetta realtà. E proprio come immaginazione, ostentando la propria ‘virtualità’, il suo essere pura finzione. E’ l’autoreferenzialità che sembra essersi definitivamente liberata di ogni complesso di colpa, e procede spedita senza bisogno di giustificarsi di fronte ad una ‘realtà effettuale’ riplasmata integralmente come ‘realtà virtuale’.

E conosciamo tutti gli straordinari strumenti che hanno potuto operare questa straordinaria inversione di rotta: sono quelli che si sarebbe desiderato usare da sempre per ‘inverare’ i miti, ora finalmente oggettivati – e oggettivanti – come non mai, in grado di operare una riproduzione della realtà fenomenica che via via, assecondando quel desiderio, si è trasformata in produzione vera e propria, anzi, in sua creazione:
quel mondo virtuale che doveva tutto e solo alla parola, alla narrazione orale (supportata tutt’al più da un’arte figurativa che, per quanto ‘realistica’, era pur sempre simbolica)… che già con la scrittura aveva raggiunto una ‘disponibilità’ che aveva sconcertato ad esempio Platone nel momento stesso però in cui, lui per primo e in modo magistrale, non aveva potuto fare a meno di approfittarne… che con l’invenzione della stampa aveva moltiplicato enormemente questa disponibilità, restando però pur sempre in una dimensione di virtualità che aveva bisogno, se mai, dell’ideologia per condizionare altro che non fosse, in ogni caso, una interpretazione della realtà…
quel mondo virtuale – avendo ora a disposizione strumenti per produrre immagini, e situazioni con immagini, di un realismo più reale, come percepibilità della realtà fenomenica, di ogni percezione sensibile, vale a dire con l’uso sempre più perfezionato di, via via, fotografia, cinema, televisione, e la possibilità di una loro diffusione e fruizione ‘privata’ praticamente senza limiti – ha fatto sì che ogni scarto tra immaginazione e realtà venisse eliminato. E non vale più nemmeno l’usuale paradosso “a volte la realtà supera l’immaginazione”, perché l’immaginazione – anche quando i sempre più perfezionati sistemi e mezzi di comunicazione permettono di assistere, e quindi testimoniare direttamente, in tempo reale, di avvenimenti che in precedenza erano noti ai più necessariamente attraverso il filtro di alcuni casuali testimoni, con prevedibili inevitabili deformazioni – diventa l’unico filtro tra noi e ciò che succede intorno a noi perché (come è stato detto già da tempo ma forse senza prevedere una così irresistibile radicalizzazione del fenomeno) “il mezzo è il messaggio”, il che potrebbe essere ora sostituito con “mezzo e messaggio esauriscono tutta la realtà”. Secondo quale meccanismo e processo?
Ognuno sa, tutti sappiamo, che una storia proposta ad esempio in una pellicola cinematografica, è una invenzione, una finzione, una mimesi, una vicenda che, come ogni rappresentazione teatrale, richiede un coinvolgimento – catartico o meno che sia – che in ogni caso siamo disposti ad accettare senza troppe resistenze proprio per la sua irrealtà, cioè perché non ‘pericoloso’ come lo potrebbe essere, appunto, nella realtà. Un coinvolgimento, un’emozione, che, senza essere un sogno, può avere la stessa intensità che le emozioni hanno nei sogni, ma – come talvolta sembra avvenire anche nei sogni, ma pur sempre come loro momento interno – nella perfetta consapevolezza che di un sogno si tratta: per cui ci si può abbandonare all’emozione senza particolari resistenze, senza particolari autocensure, fino a spingere al massimo ogni emozione, magari vergognandosene un po’, ma senza troppi sensi di colpa, prevalendo invece quasi sempre il senso di liberazione (la catarsi, appunto). Ecco, fin qui però si tratta di un fenomeno conosciuto da tempo, classico addirittura, e proprio in quanto già noto e analizzato, e utilizzato, sia pure partendo da premesse e tirandone conclusioni diverse, da due colonne del pensiero occidentale come Platone e Aristotele, consapevoli entrambi, sia pure sempre ricavandone indicazioni diverse, della straordinaria forza del mito, e tanto più straordinaria quanto più in grado di utilizzare al meglio la mimesi. Cos’è allora che ha forzato oltre ogni limite questo ‘coinvolgimento consapevole’ fino a rompere quanto gli serviva per mantenere il necessario distacco dalle emozioni anche nel momento in cui si permetteva loro di dispiegarsi completamente perché si era convenuto che ‘la realtà vera’ era pur sempre altra cosa dalla finzione, e ha invece ‘lasciato perdere’ la realtà identificandola senza residui con la finzione ben sapendo che di finzione si tratta? Due ordini di motivi:
la già ricordata quasi raggiunta perfezione, raccontando una storia, nel riprodurre gli scenari della realtà fenomenica, sia nei dettagli che nell’insieme, fino a far ritenere più attendibile la percezione che della stessa se ne poteva avere attraverso la sua rappresentazione che non nel contatto diretto, e proprio per la facoltà del mezzo tecnico – nella sua imperturbabile oggettività – di eliminare ogni possibilità di deformazione soggettiva; e ciò, come pure si è sostenuto, e prima ricordato, non ha avuto necessariamente come conseguenza la morte dell’immaginazione, ma, al contrario, in questo modo l’immaginazione poteva essere liberata da tutti gli impacci che il senso di colpa per ‘aver tradito la realtà’ trascinava da sempre con sé opprimendola;
ma tutto questo (ruolo del mezzo tecnico) probabilmente non sarebbe stato sufficiente a operare un tale potenziamento-ribaltamento, se all’aspetto qualitativo non si fosse accompagnato, con effetto determinante, l’aspetto quantitativo: è stata proprio la disponibilità e fruibilità sempre crescente di questa ‘realtà rappresentata’ – che nella diffusione di massa della televisione e col potenziamento della rete telematica si è poi generalizzata si può dire a livello planetario (il mezzo televisivo, per stridente che ciò possa apparire, compare ormai come oggetto fruito quotidianamente anche in comunità che vivono alle soglie dell’indigenza) – ad abbattere, facendole apparire, oltre che anacronistiche, insopportabilmente snobistiche, tutte le diffidenze e tutte le resistenze che, a partire dai timori platonici, avevano sempre accompagnato l’introduzione e l’uso generalizzato di mezzi artificiali di comunicazione, e quindi di rappresentazione, del mondo.
Ecco, ma chi finora ha ugualmente parlato – giustamente, ma restando alla superficie della questione – di alienazione, non ha tenuto conto, rendendo inefficace la sua denuncia, che se di alienazione si tratta (e di questo si tratta), si è di fronte, sì ad uno stravolgimento dell’uso dell’immaginazione, ma non tanto da vedere in contrapposizione ad un presunto uso corretto della stessa vigente in precedenza, quanto, al contrario, come momento più avanzato, o, se si preferisce, come compimento storico di questo uso alienante. Il mito, assediato da tutte le parti e dato per sconfitto definitivamente illudendo sulla ingannevolezza della sua necessità, si è preso una rivincita clamorosa: ma l’ha fatto sostituendo ogni sua potenzialità liberatoria col massimo di potere alienante, andando pertanto oltre, perché in tal modo eliminata, quella che era la sua ambiguità strutturale. In altre parole, la realtà cosiddetta virtuale ha coperto per intero tutto lo spazio da sempre necessario per alimentare una alternativa alla cosiddetta realtà effettuale che la realtà effettuale stessa richiedeva per essere vissuta non passivamente, per non essere solo subita, aprendosi in tal modo al rischio, come è sempre accaduto, di tutte le alienazioni, ma con questa totalizzazione ha trasformato quello che era un rischio, quindi pur sempre con margini di evitabilità, in un dato certo e ineliminabile, eliminando integralmente dal suo orizzonte la stessa ipotesi del rischio. E quella ‘immaginazione al potere’, adottata come slogan libertario da quanti si ribellavano giustamente alla alienazione, implicita ma non più sopportabile, di gran parte delle istituzioni, è stata realizzata – a dispetto dei suoi propugnatori, anche se del tutto involontariamente – dal potere stesso nel momento in cui è stato invaso e completamente occupato proprio dall’immaginazione sotto forma di realtà virtuale: dimostrando così come ‘il potere dell’immaginazione’ sia, prima che immaginazione, potere. E potere alienante al massimo grado, perché ha innalzato al massimo livello la potenzialità alienante del mito, o meglio, ha tradotto senza residui la potenzialità in realtà concedendo il primato alla virtualità.
Ecco come si potrebbe spiegare, ad esempio (ma più che di un esempio, si tratta forse della conseguenza più incontrollabile), il fatto che intere popolazioni, abituate da sempre a rispecchiarsi nei miti di una tradizione secolare, quindi abituate a ‘vivere’ quei miti come essenziali per dare una senso alle loro esistenze, abbiano da un giorno all’altro buttato alle ortiche questa tradizione per precipitarsi senza troppi pentimenti nella realtà virtuale proposta da questa fabbrica dei sogni, riconoscendosi in un mondo dell’immagine che per loro più reale non poteva essere: il mito, che si è riproposto camuffato perfettamente da realtà, è riuscito a proporsi come l’unica realtà che merita di essere considerata tale, e come tale vissuta. All’oppio, reale o figurato, costituito da quella tradizione religiosa in cui avevano sempre riconosciuto la loro sola speranza vera di poter sopportare, e poi di rovesciare nel suo contrario, un’esistenza piena solo di tribolazioni, moltitudini di ‘dannati della terra’ (cioè ogni categoria di indigenti, ‘materiali e spirituali’) hanno sostituito (o comunque accostato a quelli tradizionali, ma vissuto come allucinogeno ben più di loro potente) un mondo dell’immagine tutt’altro che immaginario e solo da immaginare, ma visibile e concreto, fatto di cose, persone e situazioni alle quali non è parso vero di potersi rapportare vivendone insieme, e in pieno, le vicende. Come rinunciare alla possibilità di interagire direttamente, vivendone storie ed emozioni, e al modico prezzo del biglietto d’ingresso in una sala cinematografica, o, ancor più, della semplice pressione su un tasto, con personaggi creati apposta, e con assoluta verosimiglianza, per rappresentare una gamma infinita di possibilità di esistenza altrimenti nemmeno immaginabili (per cui – caso limite – il divo dello schermo che rappresenta un qualche personaggio mitico, diventa lui, anche fuori dalla finzione, come personaggio secolare, l’eroe che rappresenta. E’ l’attore John Wayne, che probabilmente non è mai stato in guerra, il vero eroe delle truppe d’assalto americane, non l’eventuale protagonista storico delle gesta che lui rievoca)? Quale scenario prospettato dalle religioni può offrirsi con altrettanta dovizia? E non è che così, come da più parti si sostiene, si sia ucciso il mito impoverendo il mondo con questa uccisione: si è davvero impoverito il mondo, ma perché si è potenziato il mito nella sua sola componente alienante, facendo diventare il virtuale strumento insostituibile di una superstizione che in qualche modo il mito tradizionale, per la sua natura necessariamente imperfetta, era costretto a frenare.

Mito quindi che, incarnatosi nella realtà virtuale è riuscito, come si diceva, a mitizzare se stesso: al punto da scardinare, non solo il ruolo di secolari mitologie con le quali si erano alienate intere masse alienandole in modo affatto nuovo (magari solo ‘accostando’ la nuova alla vecchia mitologia, ma in un sincretismo in realtà solo apparente, in quanto la nuova mitologia rimodella interamente su di sé la vecchia, sia pure con le conseguenze di sempre; e, per la verità, senza troppa fatica visto su quale terreno il virtuale si è insediato), ma anche le più agguerrite difese messe in opera da quanti hanno sempre colto e denunciato il lato oscuro del mito. E sacrificando proprio, in ossequio ad un realismo che più irrealistico non potrebbe essere, una autonomia di giudizio mai come in questo frangente invece necessaria, puntando magari a scagliarsi contro un presunto impoverimento delle facoltà veramente creative dell’uomo (quelle che permettono di vivere il mito come liberazione) come se in passato queste facoltà avessero veramente prevalso. Ed è oltre tutto in questo modo che ancora una volta, di fronte alla esigenza insopprimibile, ma mai rispettata come tale, cioè come pura esigenza, della mitopoiesi, si è andati alla riscoperta, e alla riproposta, di narrazioni mitologiche del passato più remoto considerate – sull’onda della nostalgia provocata paradossalmente proprio dall’assuefazione alla virtualità – non tanto immuni da derive alienanti, quanto causa di alienazioni che si ritiene gratificante accettare.
Ri-mitizzando, appunto, il mito esattamente come il virtuale ha mostrato di saper fare, rendendo così legittima, realistica, tale operazione.

 

XVIII

Del pacifismo: di quello delle religioni e di quello laico.

Tante religioni (e comunque certamente le più diffuse), trascendentaliste o immanentiste che siano, predicano la mitezza, se non la rassegnazione, oppure l’imperturbabilità, l’indifferenza, e sono accusate in genere per questo di offrire il fianco al prevalere storico di una violenza, connaturata all’uomo, alla quale non par vero di approfittare di tanta disponibilità alla sottomissione, oppure, per altri versi, al disimpegno, per rendere più agevole la propria volontà di dominio, il proprio desiderio di sopraffazione. E in genere, le religioni, ribattono all’accusa sostenendo che invece proprio col diffondersi e col generalizzarsi dei dogmi che ne costituiscono la struttura portante, i valori di pace da esse predicati, diventando senso comune, sarebbero in grado di eliminare ogni violenza…
Dando vita così ad un circolo vizioso tanto evidente quanto sconcertante (come per altro sconcertante è ogni circolo vizioso non semplicemente frutto di un disguido logico): la pratica della non-violenza lascia campo libero ai violenti, i quali, per non essere più violenti, dovrebbero aderire a quella dottrina che permette loro di esercitare più o meno indisturbati la violenza. Certo, siccome non si vive di sola violenza (il vivere in regime di bellum omnium contra omnes è, quanto meno, faticoso, e, prima o poi, controproducente per gli stessi violenti… se vi riflettessero: cioè se smettessero di essere violenti), è innegabile che la non-violenza predicata e praticata dalle religioni ha fatto i suoi proseliti anche fra i violenti, ma il vuoto lasciato dai ‘convertiti’ è stato subito occupato da sempre nuove schiere di violenti, con sostituzione quasi fisiologica. Magari, specularmente, a contribuire a questo ricambio spesso sono stati proprio neo-convertiti alla violenza (violenti ‘di ritorno’) provenienti proprio da una militanza religiosa che li costringeva ad una non belligeranza mal sopportata, e proprio perché incapace di difendere i valori religiosi!
Ora, perché accade questo? Che ruolo ha la cultura religiosa in questo cul de sac in cui sembra sempre cacciarsi ogni movimento pacifista? E’ possibile uscirne? E come vi ha risposto la cosiddetta cultura laica?
Proviamo a rispondere a queste domande, intanto con una premessa. Quando si parla di ruolo esercitato dalle religioni si vorrebbe proprio intendere le religioni in questa loro veste di diga contro la violenza, intesa sia come fonte di ogni sofferenza provocata dall’uomo stesso che come tendenza autodistruttiva, tralasciando, in altre parole, di prenderle in considerazione nei momenti conflittuali della loro storia, sia come conflittualità tra di loro, sia nei confronti di quanti non si piegano ai voleri delle loro divinità; considerando, insomma, le religioni proprio nel loro sforzo per ovviare ad una violenza che pure considerano connaturata alla specie umana, mentre legittimano il rimettersi alla trascendenza – o ad una immanenza che poi tale non è: v. par. VI – proprio come l’unico vero antidoto per ‘salvare’ l’umanità…
E da qui una prima considerazione, sotto forma di domanda retorica: ma non è proprio questo ritenere la violenza – come tutto ciò che affligge l’umanità – la conseguenza, di un dato, sì strutturale, ma inteso dovuto ad un peccato originale, ad una ‘colpa’ dell’uomo, ciò che impedisce di fatto – per restare intanto alla testimonianza religiosa in senso stretto, sia pure là dove si dimostra orientata a salvare l’uomo da se stesso – di incidere veramente su ciò che solo la fede in una misericordia divina, trascendente, fa ritenere possibile? D’altra parte nemmeno una immanenza tutta impegnata a cercare antidoti in insegnamenti dovuti a testimonianze sacralizzate, è veramente in grado di modificare, o comunque condizionare, una natura umana su cui non si intende mai intervenire facendo affidamento sulla propria esperienza analizzata con le proprie capacità razionali, ma, al contrario, sempre solo sulla scorta di esperienze altrui adottate con afflato religioso. Da qui, non tanto la causa diretta del riprodursi, periodicamente, in modo costante, di esplosioni collettive di violenza che sembrano non aver mai nemmeno avuto sentore di tutto ciò che è stato tentato per impedirle, quanto la conseguenza consistente nella pericolosa illusione di conoscere con certezza dove risiederebbero sia la causa prima di tali esplosioni, sia l’antidoto necessario: per cui non è tanto la debolezza, o l’inconsistenza, dell’antidoto che viene eventualmente chiamata in causa, ma una sua cattiva somministrazione e assunzione. E così, a senso di colpa si aggiunge senso di colpa: alla colpa ritenuta originaria, oggettiva, si aggiunge quella sopravvenuta, soggettiva, di non aver saputo assimilare e applicare insegnamenti che, in sé sarebbero perfetti in quanto emanazione non di volontà corrotte come quelle degli uomini lasciati a se stessi, ma che poi vengono sempre, di nuovo, disattesi. Col risultato che la soluzione, tanto più si dimostrerà ardua e sfuggente, quanto più la si va cercando lontano, in formule e rituali che si sperano risolutivi perché si rimettono ad una Provvidenza cui tutto farebbe capo, o ad una Sapienza patrimonio di pochi eletti ai quali soltanto tutto sarebbe noto nella sua verità ultima.
Ed ora la domanda: il pensiero cosiddetto laico (anche qui prendendo in esame quello orientato a considerare la violenza un male da combattere e che si riconosce nei movimenti pacifisti, non certo il pensiero laico che al contrario ha individuato proprio nel conflitto la molla per ogni progresso) cosa propone? Ed ecco la seconda considerazione, sotto forma di domanda effettiva, non retorica: fino a che punto lo sforzo per liberarsi – in quanto pacifismo laico – da certo positivismo e liberismo, ma anche da certo socialismo evoluzionistico che, come detto, sia pure con finalità diverse considerano la lotta un’arma insostituibile per promuovere il progresso, invece di portare il pacifismo laico ad una effettiva emancipazione, non lo ha condizionato così da costringerlo a muoversi in un orizzonte analogo a quello religioso? In altre parole, il pensiero laico ha saputo trovare in se stesso, nel proprio laicismo, la ragione di fondo in base alla quale contrastare efficacemente una violenza che pure ha considerato componente ineliminabile dalla natura umana senza incorrere negli stessi limiti del pacifismo religioso? In che misura, detto ancora in altro modo, la sua razionalità, invece di consistere in un uso spregiudicato dello strumento razionale come dell’unica vera arma a disposizione dell’uomo per fronteggiare ciò che rende la sua vita, quando non dolorosa, certamente faticosa, non è diventato nient’altro che razionalismo, cioè un nuovo fideismo, scontando così, ancora una volta, la sua inferiorità ‘storica’ quando viene a porsi in concorrenza sui temi esistenziali col pensiero religioso senza in realtà essersene mai veramente emancipato, senza essere riuscito a non farsene condizionare anche sulla questione del pacifismo?
A questo punto non si può più eludere la domanda cruciale: come viene vista la non-violenza dal pensiero laico? E’ in grado, come pensiero laico, di porsi di fronte alla violenza, e quindi proporre la non-violenza, con strumenti veramente alternativi? Partiamo dalla considerazione che da tanta parte del pensiero laico, ovviamente non pacifista, la non-violenza viene vista come una sorta di proposta pavida – secondo un certo niccianesimo d’accatto – dettata (complici le varie religioni, ma anche l’intellettualismo instaurato da Socrate) dalla paura di ‘dire sì’ alla vita invece di accettarla per quello che è, cioè fatta di momenti tragici e di momenti sublimi gli uni in perenne rincorsa degli altri, di fatto gli uni identificandosi con gli altri. Ecco, spesso questa convinzione ha operato e opera come retro-pensiero anche nel laicismo pacifista ed è così che la violenza finisce per annidarsi, subdolamente, nella stessa non-violenza, nel senso che un pacifista il quale cova dentro di sé questa non superata convinzione finisce per perseguire con violenza gli obiettivi pacifisti: e proprio per dimostrare che non è la paura a guidarlo, quanto un senso superiore della convivenza umana…
intendendo questo ‘superiore’, ecco il punto, come appartenente ad una sfera in qualche modo pur sempre trascendente, per uniformarsi alla quale, o comunque per rendere storicamente realizzabile la quale, diventa legittimo, anzi doveroso, combattere, lottare. Ora, a parte il fatto, per altro storicamente decisivo, che fino ad ora non si è ancora data una lotta, sia pure anche solo quella delle idee, possibile senza violenza, una non-violenza che non fosse dettata dalla paura della vita (quella che la vita trascina con sé quando intende affermarsi comunque) non farebbe altro che riaffermarne la sacralità, e quindi legittimare il sacrificio: cioè la forma più assurda di violenza.
Ma – si obietterà, tornando così al punto di partenza di tutta la questione – non è proprio in questo modo, cioè ostentando questa paura, che il pacifismo evidenzia quanto sia vulnerabile, e proprio da parte di chi approfitta di questa paura per imporre la sua volontà di dominio? E non è proprio, e soltanto, facendo appello a un qualche potere ‘superiore’, e convincendo i violenti della ineluttabilità di quel potere, che li si potrà neutralizzare (secondo la tesi nicciana emergente dalla sua ‘genealogia della morale’, per altro, e all’opposto, da lui – o più probabilmente nonostante lui – utilizzata proprio, per mostrare, sì l’inganno contenuto in ogni forma di morale, prima fra tutte quella cristiana, ma per ‘salvare’ i ‘forti’, bollati per pavidità come violenti, dall’attacco dei ‘deboli’)? Insomma, è possibile rispondere alla violenza senza ricorrere alla violenza – diretta, esplicita, perfettamente speculare e quindi nella necessità di riprodurla, secondo la, ritenuta ineliminabile perché ‘naturale’, legge del più forte; o indiretta, più o meno ipocritamente facendosi scudo, delegandogli l’uso della forza, di un potere superiore, trascendente – come solo modo per contrastare l’homo homini lupus?…
In realtà ci si illuderà (ci si è illusi) di poterlo fare sempre dopo ogni bagno di sangue, quando tutta l’immensa scelleratezza e stupidità di ogni conflittualità sarà posta (è stata posta) in tragica evidenza da tante inutili disumane sofferenze… ma basterà (è bastato) che si ritorni prima o poi a puntare su un qualche ‘destino superiore’ cui è destinato, appunto, l’uomo (e non importa se solo alcuni ‘eletti’ o l’umanità intera), compreso il destino di pace cui l’umanità sarebbe destinata se prevalesse, non tanto la ragionevolezza, quanto la razionalità pura, e poi basterà (è bastato) il verificarsi di un qualche scacco, conseguenza inevitabile della lotta che si ritiene indispensabile per la realizzazione di questo destino, perché si abbia (si sia avuto):
da un lato la ripresa di vigore delle tesi laiche circa la possibilità di ‘deviare’ la conflittualità ineliminabile dalla natura umana a favore dell’uomo (e questo sarebbe già il male minore se contrapposto all’altra tesi, pure sostenuta da certo, antico ma sempre riemergente, pensiero laico, di ‘lasciar fare alla natura’, alla selezione naturale, ché, essendo naturale, è per ciò stesso ‘buona’!);
dall’altro lato, e quasi sempre in concomitanza col fallimento di questo laicismo, un ritorno del tutto incontrastato del pacifismo di ispirazione religiosa.
In entrambi i casi, alla violenza si tornerà a rispondere con la violenza, tanto più subdola quanto più esercitata in perfetta buona fede all’interno di un sincero desiderio di superarla. Perché se non sarà la paura – consapevolmente riconosciuta e accettata come la compagna ineliminabile della condizione umana e non superabile con l’appellarsi ad una qualche taumaturgica provvidenza, religiosa o laica che sia – ci sarà sempre la più pericolosa delle illusioni a guidare l’azione dei pacifisti: quella del pacifismo ‘armato’… e armato non tanto della volontà di aiutare tutti a non rimuovere la paura come solo modo per avere paura soprattutto della violenza, quanto armato di ‘valori’ da difendere a tutti i costi. Nell’un caso e nell’altro a guidare l’azione del pacifismo sarà l’alienazione, la fuga da un sé più odiato che amato perché ritenuto, giustamente, responsabile del proprio danno, ma che non considera come tanta causa di violenza stia proprio nella violenza (nell’odio) con cui si rifiuta la condizione umana e che porta al desiderio di trascenderla. Non intervenendo in realtà mai davvero sulla condizione umana, conservandola intatta all’interno di questo involucro (il pacifismo ‘armato’) che vorrebbe essere protettivo e che invece perpetua solo un malessere il quale, proprio in quanto strutturale, comporta, come solo modo per difendersene, l’essere riconosciuto, accettato, e combattuto come tale, cioè come strutturale e quindi ineliminabile: perché eliminarlo sarebbe possibile solo – circolo vizioso – combattendolo, cioè attivando ciò che produce malessere…

E la questione della non-violenza che ‘aiuta’, che lascia campo libero, ai violenti? Va da sé: è un circolo vizioso, il quale però non può essere interrotto inserendosi nel suo meccanismo puntando a rovesciarlo, perché non si rovescia ciò che, per definizione, esiste proprio come continuo rovesciamento-sostituzione di causa ed effetto (l’una diventa l’altro e viceversa). L’unico modo per affrontarlo è cercare di attenuarne gli effetti non prestandosi al suo gioco adottando di fatto il modo più idoneo per invece assecondarlo, cioè illudendosi di poterlo superare puntando su qualcosa che ne starebbe fuori. Che lo trascenderebbe.
Da cui l’apparente paradosso: l’unico modo per combattere la violenza è non esercitare la violenza, cioè non combattere. Non combatterla. Cosa che invece si fa sempre quando si esercita la non-violenza per difendere (combattendo) dei valori.
Si assisterà così allora, ancora una volta, al solo sacrificio degli inermi? Se alla paura metafisica rimossa che, in misura diversa, ha in ogni caso sempre di fatto guidato il pacifismo, si sostituisce – e si riesce a farla diventare senso comune nell’unico modo possibile, cioè dando forma e sostanza ad un progetto pedagogico – la paura storica, ma di una storia che è tutta e solo storia dell’uomo costruita dall’uomo come sforzo per neutralizzare la violenza cui lo costringe la vita…
si potrà certamente, anzi si dovrà, di fronte all’emergenza che non consente alternative rispondere alla violenza con la violenza…
ma nella consapevolezza che l’eventuale sconfitta dei violenti di per sé non significa in alcun modo sconfitta della violenza e tutto prima o poi si ripeterà se, appunto, si pensa di averlo potuto fare in nome di un principio superiore mentre in realtà lo si è fatto solo usando, sia pure perché nella circostanza era indispensabile, una stessa violenza.
Quale guerra, combattuta perché fosse finalmente l’ultima guerra, non ha invece creato le premesse per altre guerre?



 

XIX

Sempre in margine al pacifismo: vincitori e vinti… o salvati e dannati?

Uno dei miti forse più corrosivi del nostro tempo – e tanto più corrosivo quanto più ormai tenacemente rigermogliato sulle rovine procurate da quanti hanno inteso scardinarlo senza averne colto veramente la natura – è il mito della competizione. Non deve ingannare più di tanto l’apparente inoffensività di un termine che evoca il sano confronto sportivo, la gara dominata dal classico fair play: da tempo, chiunque non voglia passare per sprovveduto ci tiene a chiarire a scanso di equivoci che lui, che non è nato ieri, non ha mai creduto nel decoubertiniano ‘l’importante non è vincere, ma partecipare’ (e del resto, chi pratica lo sport – non si dice a livello professionistico dove vincere, battere l’avversario, è la ragione stessa della professionalità – ma anche proprio, come suol dirsi, ‘solo per sport’, considera il fair play la prerogativa, il lusso, di una classe dominante – inglese, storicamente – che ha sempre assecondato con ben altre attività la sua pulsione aggressiva, mentre lo sport doveva servire proprio per rendere ritualmente inoffensivo – come pare accada per tante specie animali – ciò che fuori del rituale esigeva solo violenza. Insomma, un allenamento in forma di rito propiziatorio in vista della lotta vera). No, la competizione non sopporta eufemismi, tartufeschi palliativi, edulcorate riduzioni esorcizzanti: se competizione ha da essere, non può che comportare dei vincitori e dei vinti, anche quando in palio ci fosse solo una niente più che simbolica coppa. Perché la gara sportiva, ci insegnano sociologi e psicologi, nonché ci ‘cantano’ giornalisti sportivi in preda a raptus da epinicio, altro non è che una rappresentazione metaforica della vita, la quale, spogliata della metafora, si rivela per quello che nella sua essenza è: lotta per la sopravvivenza! La quale ‘lotta per la sopravvivenza’ a sua volta non è altro – e qui più propriamente trova il suo terreno di coltura il mito – che la legge cui sottostà tutto quanto costituisce il campo della nostra esperienza di esseri viventi.
Ed è un mito, quello della competizione, che nella cultura occidentale ha avuto il suo prestigioso-ambiguo riconoscimento, tanto più ambiguo quanto più prestigioso, in coincidenza con gli albori del pensiero filosofico, quando l’antico Eraclito sentenziò (forse, da filosofo, per sfatare altri miti) che ‘la guerra è la madre di tutte le cose’. Da allora – quasi conferma della sua natura assiomatica, di verità assoluta – il mito costruito su questo principio ha stritolato senza remissione tutti quanti hanno inteso contestarlo, contrastarlo. Perché, come hanno ritenuto di poterlo contrastare? In un solo modo: combattendolo, facendogli guerra. Appunto! Per continue, tragicamente ricorrenti che fossero – e sempre più dolorose quanto più si venivano affinando le armi, materiali e psicologiche, per avere la meglio nella contesa – i riscontri di quanto i danni, le sofferenze, risultassero ben più consistenti dei vantaggi che restavano in eredità ai contendenti, per vincitori che fossero (dagli ‘infiniti lutti’ arrecati dall’ira di Achille ai pur alla fine vincitori Achei, alle ‘inutili stragi’, che tali, cioè inutili se lo scopo era quello di eliminare ogni altra occasione di conflitto, si sono rivelate anche per quanti sono usciti vincitori dai conflitti mondiali, o dalle rivoluzioni ‘epocali’, del secolo scorso), è sempre stato demandato in ultima analisi alla lotta, alla competizione, una volta esaurito il rituale del ‘confronto dialettico’, la soluzione dei problemi che ricorrentemente hanno angustiato, e continuano ad angustiare, la società umana. E quando non è il conflitto armato a evidenziare come i rapporti umani, alla resa dei conti, trovino ‘soluzione’ per i problemi che sollevano solo se sono in grado di far emergere dei vincitori e dei vinti (cioè applicando l’eterna legge del più forte)… è la ‘politica’, la cosiddetta dialettica politica, il cui scopo principale dovrebbe essere proprio quello di sostituire lo scontro col confronto, a perdere per strada il riferimento all’esigenza che l’aveva – facendo sorgere già a suo tempo, nella polis greca, la nozione di democrazia – resa necessaria e, sempre alla resa dei conti, a diventare, parafrasando/rovesciando un celebre aforisma, niente altro che ‘la guerra continuata con le armi della politica’, basata pur sempre com’è quest’ultima sulla necessità di far emergere dei vincitori e dei vinti: chiamati magari maggioranza e minoranza. Male minore, certamente, anzi, considerato l’unico modo, per pieno di limiti che sia, in grado comunque di costituire una alternativa praticabile alla ferinità dell’homo homini lupus, se non fosse che conserva intatti – e quindi, all’occasione, sempre pronti a riemergere nelle forme violente solite – tutti i caratteri della lotta da cui far uscire dei vincitori e dei vinti.

Ma come è stato affrontato questo ‘destino’, come ci si è confrontati con questa ‘legge’ che sembra costringere l’umanità a farsi del male usando al meglio (cioè al peggio) quelle stesse facoltà che le permetterebbero di rendere la sua presenza su questo pianeta ben più agevole, se non piacevole, di quanto poi, per la stragrande maggioranza dei suoi componenti, non sia? Se ci rimettiamo alle religioni (cioè a un ‘sentire comune’ reso vincolante da un problema esistenziale di cui Qualcuno si è, ed ha, convinto di possedere la soluzione), questo destino è stato affrontato trasformando un dato, per altro inequivocabile come dato di partenza, come constatazione (la violenza come elemento sempre riscontrabile nel comportamento di ogni essere vivente), e proprio in quanto dato inequivocabile – ma soprattutto in quanto fonte di sofferenza – in una colpa (v. par. precedente). Generando in tal modo questa contraddizione: una colpa è causa oggettiva di un male, ma, proprio in quanto colpa, anche soggettiva, e quindi che si può sempre espiare, cioè cancellare… ma come è possibile estirpare ciò che è ritenuto costitutivo (e immodificabile) della natura umana (come, per altro, di ogni altro essere vivente) se non combattendo questa natura stessa, cioè se stessi? Come conciliare ciò che necessariamente si è con ciò che, altrettanto necessariamente, si vorrebbe essere, considerando per altro il ‘voler essere’ costitutivo pur esso di ciò che si è? Un rebus inestricabile, un vicolo cieco, per definizione senza via d’uscita, un circolo vizioso ineliminabile… Oppure eliminabile proiettando il problema al di là di sé, in una dimensione, che di fatto è il mondo del ‘voler essere’ (o anche, è lo stesso, il mondo del desiderio), ma che si farà diventare il mondo del ‘dover essere’: un mondo che per forza di cose non sarà quello nel quale si è costretti a vivere una tale contraddizione, considerando perciò tale proiezione l’unica possibilità di trovare la ‘causa’ di ciò che si è, e insieme la possibilità di cambiarlo. Ma la partita non può essere giocata veramente che , in quella dimensione ‘altra’, dal momento che qua regna sovrana la contraddizione: o meglio, la si deve giocare qua, perché qua siamo, ma l’esito della partita (della gara, della lotta, della competizione, ecc.) lo conosceremo solo quando non saremo più qua, e per quanti sforzi si facciano per ‘vivere qua’ come si ‘vivrebbe là’, è pur sempre là (perché qua non possiamo che combattere, cioè soffrire) che faremo l’esperienza di un’esistenza finalmente senza colpa. Cioè senza male, senza sofferenza.
Ma chi sarà veramente in grado di godere di questa esperienza, cioè di vivere mondato dalla colpa? In altre parole, chi si salverà? E chi invece sarà dannato? Per ogni religione, comunque intesa, si salverà chi crederà con tutto se stesso – e, per tanti aspetti, contro se stesso, contro la propria natura – in quella dimensione altra (comunque intesa: dai ‘paradisi’ delle religioni trascendentaliste, ai ‘mondi migliori’ delle utopie prese alla lettera) in cui riporre ogni speranza di riscatto altrimenti impossibile; sarà invece dannato chi confiderà nella possibilità di modificare la natura umana dall’interno, senza aspettarsi un qualche intervento da fuori, da un qualche aldilà. Si salverà chi crede nella colpa e la combatterà con tutto se stesso; si dannerà chi non crede nella colpa, e pertanto sarà destinato, o a soggiacere ad una natura corrotta in quanto contrassegnata dalla colpa, o a cercare di modificare questa natura confidando solo in se stesso. I primi si salveranno, perché avranno vinto questa battaglia contro se stessi, cioè contro la propria natura; i secondi si danneranno perché avranno perso nel combattimento contro se stessi, contro la propria natura, la quale non poteva che avere la meglio, una volta lasciata a se stessa, o affrontata con armi ‘naturali’.
Insomma, salvati e dannati. Cioè, pur sempre, vincitori e vinti.

Con la cosiddetta secolarizzazione (o modernità che dir si voglia), e nella sua componente che esplicitamente ha ricusato un destino per gli uomini di ‘salvezza’ o di ‘dannazione’, sono per ciò stesso usciti di scena ‘vincitori’ e ‘vinti’? Sembra proprio di no, anzi! Ancora una volta la ‘memoria’ di una eredità fatta di esorcismi mirati a sopportare la tragicità di tanti conflitti che in realtà non facevano che spostare momentaneamente ‘altrove’ – e servendosi proprio del mito – il luogo di ricomposizione delle fratture vedendosele poi ritornare potenziate anziché attenuate (le guerre di religione, cioè – v. par. XIII – da un certo punto di vista tutte le guerre), ha prevalso su un ancora troppo confuso, poco razionalmente sostenuto, desiderio di liberarsi da tale retaggio. E così il pensiero laico:
per un verso ha esaltato esplicitamente un darwinismo sociale (chiedendo scusa, per l’uso di questa espressione, all’incolpevole scienziato Darwin) totalmente appiattito su modelli naturalistici che niente hanno a che vedere, nel senso che ne divergono per aspetti essenziali, con la cosiddetta natura umana, assolutizzando, oltre tutto, cioè collocandola nell’empireo dei dati oggettivi (cioè sacri e da onorare con sacrifici) una natura, e una naturalità, mitizzate nella forma più deleteria, cioè con l’avallo di una scienza a sua volta mitizzata. Per cui opporsi a questa ferrea legge che impone che ci sia sempre chi prevale e chi soccombe, gli uni perfettamente funzionali agli altri, è considerato del tutto insensato. Tutt’al più si potrà piangere, o maledire, questo destino, come si può dire da sempre hanno fatto e fanno poeti, artisti in genere, ma, quando le loro ‘creazioni’ si riducono a questo, le loro lamentazioni, per suggestive che siano, non possono che sottintendere e sottolineare la loro impotenza, il loro essere in fondo dei ‘perdenti’;
per altro verso, il pensiero laico più avvertito, autodefinitosi, in preda ad un’ansia comprensibile ma spesso cattiva consigliera, illuminato, ha puntato tutto sulla possibilità di un correttivo sociale in grado, usando le armi della cultura, di estendere sempre più le conquiste della civiltà, di far diventare sentire generalizzato, condiviso consapevolmente da popolazioni sempre più numerose, i valori della pace, della solidarietà, della tolleranza considerati sinonimi, appunto, di cultura, di civiltà. Scelta da condividere senza riserve, va da sé, se non fosse che: né questi cosiddetti valori sono stati riesaminati in prospettiva realmente laica, con un vero sforzo di liberazione da ogni teologismo, e quindi inevitabilmente assolutizzati e sacralizzati (come già è stato ripetutamente rilevato in queste note); né (per entrare nel merito di questa nota) si è ritenuto di puntare direttamente a mettere sotto accusa il mito della competizione, meglio, la mitizzazione della competizione, rimanendone schiavi proprio nel momento in cui si è invece puntato a regolamentarla, di fatto a legalizzarla. E dove sta il ‘teologismo’ di questa regolamentazione? Nel delegare ad una qualche Provvidenza (magari camuffata da ‘Ragione astuta’) una finalizzazione dei conflitti a beneficio di una umanità che in realtà viene considerata come Umanità, cioè una astrazione, un ente teorico, un’‘idea pura’, innalzati a luogo della composizione unitaria di ogni conflitto mentre si esaltano proprio gli elementi in conflitto, rendendo fondamentale per trovare l’accordo la permanenza – regolamentata – dei conflitti. Tutto quanto, in sostanza, ha non a caso trovato una sua sublimazione in quella mostruosa commistione (mescolanza spuria, razionalizzazione della peggior specie) di retaggio religioso e di volontà di potenza che va sotto il nome di etica protestante, vista per altro, secondo note e argomentate teorie, come la vera forza propulsiva del Capitalismo. Etica protestante, dove il ‘vincitore’ è tale senza mezzi termini, e quale che sia il ‘campo di battaglia’ che lo vede vincitore, perché guidato direttamente da dio: né più né meno di come accadeva agli eroi omerici, con la sola differenza – alla fin fine più apparente che reale – che quelli chiedevano di essere sostenuti in battaglia, mentre in genere i nuovi eroi chiedono di essere guidati verso il successo in altre attività, con una predilezione particolare per l’attività economica, intesa come valorizzazione e sfruttamento del ‘capitale’, inerte (beni materiali, danaro) o vivente (forza lavoro, cioè persone) che sia… Attività economica che certamente come tale può essere finalizzata a migliorare concretamente la condizione umana, distogliendo tra l’altro gli uomini da altre attività autodistruttive, ma che non distoglie proprio da niente in questo senso se per renderla efficace si considera come sua molla propulsiva la concorrenza. La competizione. Che reclama, per sua natura, vincitori e vinti. E quando, da parte dei sostenitori laici del modo di produzione capitalistico, si è inteso liberarsi da ogni ipoteca religiosa, invece di far emergere ciò che comunque era la componente ‘laica’ pur sempre presente in ogni religione (come in ogni mito) in quanto manifestazione di una esigenza reale, hanno considerato tale esigenza l’ostacolo principale per lo sviluppo capitalistico, adottando per contro della religione la componente teologica, con tutta la sua carica alienante, nel momento in cui hanno demandato la composizione dei conflitti pur sempre ad una Provvidenza (la Mano Invisibile di Adam Smith) sul cui operato c’era solo da prestare cieca fiducia, oppure ritenendo di doversi rimettere ancora e sempre ad una ‘naturalità’, cioè ad una natura sacralizzata, dove il conflitto è legge. Per cui, bando alle ipocrisie!, solo chi risulta vincitore nel conflitto può costruire, ha il diritto di costruire, sulle spoglie dei vinti, la propria esistenza.
E quando poi è emerso un pensiero laico che sotto molti aspetti sembrava essere in grado di emanciparsi da questo teologismo col supporto di una buona dose di materialismo ateo, e che certamente ha colto lucidamente tutta la disumanità, tutta la barbarie, di quella prassi, dando il suo contributo decisivo al sorgere del movimento socialista, si è fatto giustizia certamente di tanta sempre più inutile mitologia, ma di una sua componente fondamentale, strutturale, non ci si è liberati, e anzi la si è ancora una volta, e col solito generoso ma deviante intento di eliminarla definitivamente, assolutizzata, sacralizzata: la lotta. La Lotta di Classe. La vittoria del Proletariato, era, doveva essere, la fine della lotta di classe. Cioè la fine di ogni conflitto essendo venute meno le cause dei contrasti sociali. E così, avendo puntato tutto su una vittoria solo umana, senza la prospettiva di un futuro in grado di trascendere la condizione umana (questa l’accusa mossale dalla cultura religiosa), in realtà senza considerare fino in fondo quanto questo mito della vittoria comportasse il rischio di diventare uno degli elementi di maggiore alienazione dell’uomo proprio perché non poteva che proiettarlo al di là di sé, nell’aldilà, mai vittoria fu di più breve durata (v. par. V), e di conseguenza mai disinganno fu per tanta umanità così atroce. Ripiombando questa umanità illusa e disillusa nelle braccia di chi, rinvigorito dalla sconfitta di quello che si presentava come il suo avversario più temibile, continuava a promettere vittorie ‘vere’, e tanto più vere quanto più si dimostravano fasulle quelle proposte dai ‘senza dio’.

Certo, è sommamente ambiguo predicare la non-violenza, ma diventa sicuramente controproducente se si pone, come orizzonte in direzione del quale ci si deve muovere, un simulacro, un miraggio – la Vittoria – che invece di proiettare in un Futuro Radioso, non è altro che l’ombra della propria paura rimossa proveniente da un ‘passato’, cioè da una condizione umana, che non si vuole riconoscere. Perché riconoscerlo implicherebbe fermarsi a guardare indietro, a guardare dentro, trovandovi solo cataste di cadaveri: cioè di vinti, senza ombra di vincitori. Almeno fino a quando si continuerà a considerare di fatto la vicenda umana come il risultato di una lotta senza fine. E la guerra come ‘madre di tutte le cose’.


 

XX

Riappropriazione del corpo o sua ri-sacralizzazione?

Il rapporto delle religioni con la corporeità intesa come fisicità vissuta attraverso l’esperienza del proprio corpo, è sempre stato conflittuale, anche nelle forme tendenti più di altre a valorizzarla, e per una ragione ovvia: rifiutando di considerare la fine dell’esistenza biologica come anche la fine per l’uomo di ogni esperienza, l’inesorabile parabola del corpo dalla nascita alla morte è vista come il limite proprio della vita biologicamente intesa, e quindi del corpo come sua manifestazione, che porta, in modo solo apparentemente contrastante, o al suo disprezzo o alla sua esaltazione come ‘tempio’ di una dimensione dell’esistenza che comunque lo trascende. Disprezzo o esaltazione, comprese tutte le gradazioni intermedie, sono accomunati infatti dall’intenzione di mettere in ogni caso in primo piano la separatezza, la diversità, tra due dimensioni dell’esistenza umana, o inconciliabili, o conciliabili solo a condizione che l’una (la dimensione fisica) si ponga al servizio dell’altra (la dimensione spirituale), che ne costituisca la custodia, lo scrigno, più o meno prezioso. E anche quando, rispondendo al desiderio inconscio di sperimentare una emancipazione dal divino, dal trascendente, si è assistito ad un corrispondente desiderio di valorizzazione del corpo, della sua dignità e autonomia, si è voluto più che altro significare ‘ufficialmente’ (e di fatto in genere si è significato) una presenza più marcata, più visibile, più esperibile sensibilmente, del divino nell’umano: da cui l’esaltazione della perfezione, e quindi della bellezza, del corpo umano. Il quale per altro non poteva che essere comunque idealizzato, sul modello della statua greca, perché l’occhio umano non poteva non vedere quanto in realtà potesse anche essere imperfetta, disarmonica, goffa, sbilenca, volendo pure ridicola, questa macchina anche là dove si presentava priva di tutte quelle deformazioni che poi erano ben visibili nella stragrande maggioranza delle persone. Deformazioni, imperfezioni, che, attenendo alla sfera estetica, variano nel modo di essere percepite, alcune addirittura trasformate da difetti – che tali appaiono in determinate culture in certi periodi – in pregi considerati tali da altre culture in altri periodi, ma accade ovviamente anche il contrario (pregi per alcuni che diventano difetti per altri), per cui il riscontro di una imperfezione, di una deformazione, è comunque sempre stato inevitabile: ciò, con l’accentuarsi della valorizzazione del corpo sulla base della presenza visibile in esso della traccia divina, finisce così per confermare una sorta di elezione per alcuni pochi, e per altri, se non dannazione, certamente conseguenza personale visibile della caduta dell’uomo dovuta alla colpa. Alla fine, la vera composizione, e quindi perfezione e bellezza come armonia del corpo umano, può verificarsi solo nell’immaginario, per diventare poi immagine solo nell’opera dell’artista, e solo qui, nell’opera dell’artista guidato da questo desiderio di rendere percepibile la perfezione, il divino si può risolvere senza residui nell’umano, realizzarsi completamente nell’umano: per cui si strappa il velo che separa l’uomo da dio, ma ciò è possibile solo per la mediazione, attraverso il filtro, della ‘creazione’ artistica, con tutta l’ambiguità che tale operazione trascina sempre con sé (v. par. XV).
In ogni caso, per quanto riguarda la cristianità, con l’umanesimo e il rinascimento – non per niente orientati a recuperare, attraverso una maggiormente disincantata attenzione alle testimonianze di cui si disponeva, il mondo greco – la perseguita centralità dell’uomo si traduce anche in una valorizzazione del corpo umano che intende contrapporsi ad una sua sistematica penalizzazione perseguita dalla cristianità medievale, almeno per come quella cultura veniva percepita dagli umanisti. E se anche (o proprio) avendo come punto di riferimento la produzione artistica, la dissoluzione del divino nell’umano era – e dichiaratamente da chi viveva e intendeva interpretare questa temperie culturale – una dissoluzione, meglio, un innalzamento, dell’umano al divino (avendo tra l’altro a disposizione quel modello ideale straordinario, che poi sta più o meno sempre alla base di tutta questa produzione, e che era l’iconografia del Cristo, cioè del dio che si fa uomo), questa divinizzazione dell’uomo non poteva non diventare di fatto una umanizzazione del divino, per cui il corpo umano andava ridisegnato nella sua percepibilità umana, lontano dalle deformazioni gotiche o dai simbolismi posti in primo piano a celare una corporeità sempre da condannare e tipici delle raffigurazioni medievali; e anche quando si doveva comunque raffigurare la decadenza della carne, la bruttezza di tanti rappresentanti dell’umanità, era pur sempre una deformazione visibile – e vista – da occhio umano, ricavata da una esperienza umana. L’umanizzazione del divino inoltre, avente come modello la figura del Cristo, e anche proprio del Cristo in croce, trascinava con sé, cercando di rappresentarne visivamente tutta l’umanità concentrata nella straordinaria scena della crocifissione, il recupero della donna, anche se il corpo della donna doveva restare ben celato nella sua nudità: tutt’al più poteva trasparire una sorta di sensualità femminile da un volto che stava pur sempre assistendo all’esposizione di una nudità maschile, ma è difficile pensare che in questo ci fosse intenzionalità.
Ma tutto ciò, come si anticipava, lo si può riscontrare con quel senno di poi che trova proprio soprattutto nella produzione artistica (o comunque nella mitopoiesi) quella testimonianza sufficientemente ambigua da rendere plausibile l’applicazione, appunto, del ‘senno di poi’, cioè, detto altrimenti, che legittima, che rende significativa, non tanto ogni e qualsiasi interpretazione, quanto l’interpretabilità… mentre resta indiscutibile il fatto che anche nella visione cristiana (o di altre religioni attraversate da analoghe scadenze), e anche quando ne emerge con forza l’esigenza di comporre l’umano e il divino, sempre di una composizione di elementi eterogenei si tratta, cioè di una sorta di convivenza più desiderata che considerata veramente possibile, per cui, al di là della sublimazione artistica, il corpo umano resta pur sempre la manifestazione di una dimensione biologica dell’esistenza la cui inesorabile decadenza e decomposizione, con relativa sofferenza, non può che rimandare, da un lato ad una ‘colpa’, dall’altro ad una dimensione nella quale soltanto è possibile espiare questa colpa, il che non può certo accadere all’interno di una storia puramente biologica.
Storia biologica che comporta tra l’altro, o soprattutto, quella scadenza cruciale costituita dalla vita sessuale, dall’atto sessuale, necessario per la continuazione della specie, che subisce la stessa sorte: da un lato condanne senza appello, alcune più radicali altre più tolleranti, ma pur sempre condanne; dall’altro tentativi di recupero, in considerazione della sua necessità, anche della dignità dell’atto sessuale, della sua bellezza come atto vitale, purché sia sempre ben chiaro che di un mezzo si tratta e non di un fine. E siccome a fare le spese di questo tabù della sessualità era sempre stata soprattutto la donna – il cui corpo è il ‘laboratorio’ necessario di quella esistenza biologica che si doveva trascendere: da cui la sua emarginazione sociale – c’è conseguentemente anche il tentativo di un suo recupero, ma non si va mai al di là di una esaltazione del suo ruolo materno, e quindi del suo corpo come ‘sede’ della vita intesa come dono divino, non certo come strumento di seduzione o di piacere. Piacere e seduzione che per altro non ci si negava sicuramente, ma scaricando il senso di colpa che potevano procurare, che comunque ufficialmente ‘dovevano’ procurare, sulla donna: alla quale spesso non restava altra difesa, per conquistare un ruolo sociale comunque riconosciuto, che l’identificarsi con l’immagine che di lei si voleva, per cui finiva per essere, per costringersi ad essere, o madre o prostituta, confermando così, in un circolo vizioso continuamente riprodotto, chi tale la voleva. Nell’immaginario cristiano, era o Madonna o Strega (diavolessa): nell’un caso o nell’altro portatrice di un corpo estraneo, quando non nemico, al suo essere persona.


Quindi, mortificazione o esaltazione, il corpo umano è sempre soggetto, da parte delle religioni, anche le più secolarizzate, ad una sorta di controllo, ad una sorta di censura sulle conseguenze della sua natura puramente biologica, del suo destino di ‘vita breve’ e di decadenza irreversibile. Cosa ha comportato allora lo sforzo di emancipazione da questo controllo, da questa censura? Indubbiamente per tanti versi una liberazione, ma via via si è assistito ad una liberazione sempre più dichiarata, a volte perfino urlata, e però sempre meno veramente fruita, producendo spesso di fatto il passaggio senza soluzione di continuità da una schiavitù all’altra. E di fronte a questa nuova schiavitù (liberazione del corpo che può diventare ossessione del corpo; liberazione sessuale che può diventare ossessione del sesso: si tornerà su questo) anche qui si registra il solito rigurgito reazionario:Ecco cosa produce la perdita dei valori, il misconoscimento della trascendenza, cioè della vera dignità dell’uomo (e della donna) che non può che risiedere ‘oltre’ l’uomo, al di là della sua dimensione puramente biologica!” Nascondendo disinvoltamente a se stessi il fatto che si tratterebbe in ogni caso, e con tutta evidenza, del passaggio da una ossessione ad un’altra, ma soprattutto che si tratta, alla radice, della stessa ossessione, e che se mai è proprio l’ossessione originaria che trova la sua più autentica realizzazione, il suo compimento senza residui, la sua esaltazione. E che, se è vero che le religioni potevano costituire un freno a certi eccessi, è proprio al come venivano motivati e vissuti questi freni (pur sempre per ‘espiare una colpa’, e in genere diventando proprio essi il vero eccesso) che si deve, una volta tolti i freni ma permanendo nel profondo il senso di colpa, il fatto che spesso la ‘liberazione’ sia potuta diventare, invece che ‘liberazione da’ un’ossessione, ‘liberazione di’ un’ossessione. E regolarmente ci sarà chi finirà per rimpiangere, e quindi per voler recuperare in modo ancor più potenziato, complice la delusione, la condizione in cui operavano i freni, in cui erano vigenti i ‘valori’. E regolarmente riprendono forza – per un verso ‘aggiornando’ il loro armamentario (apparentemente adeguandosi anch’essi alla modernizzazione, e magari, spesso, anche in buona fede), ma proprio per questo rendendo più efficace la loro capacità di presa – i guardiani deputati di tali valori.
E tutto questo – paradosso dei paradossi, ma più propriamente esplosione di una schizofrenia di fondo, strutturale ad una cultura pur sempre teologica solo rimossa, e quindi operante senza controllo – avviene parallelamente alla ricerca, affannosa e disperata, e tanto più affannosa e disperata quanto più la si vorrebbe gioiosa e vitale, di una cura maniacale del corpo che, anche scartandone gli aspetti più grotteschi, cerca di finalizzare quasi interamente i vantaggi del benessere e della scienza, più che a migliorarne le condizioni materiali di esistenza, a potenziarne al massimo le ‘prestazioni’. La riconquista dell’esteriorità avviene senza che si sia in grado di superare un senso di perdita dell’interiorità, un senso di vuoto, che allora si cerca di riempire rovesciando tutta quella che era la ‘cura’ che richiedeva e imponeva l’interiorità, l’‘anima’, su ciò che solo sembra restare dopo il suo rigetto: il corpo. Sul quale finiscono per convergere tutti i rituali che prima erano riservati al culto dello spirito: i ‘concorsi di bellezza’, ormai non più solo femminile, non sono altro che il rito celebrato in pompa magna, da ‘messa solenne’, dove un cerimoniale sempre più grottesco (tanto più grottesco quanto più spettacolare, come è proprio di ogni rituale religioso che cerca con la spettacolarizzazione di nascondere la propria fatuità)… non è altro che l’enfatizzazione di un culto dell’aspetto fisico, che magari si finge di snobbare, di ridimensionare abbastanza ipocritamente (gioca sempre un suo ruolo nell’inconscio il tarlo del sacrilegio, della profanazione), ma che tutti considerano un ‘valore aggiunto’ sempre meno aggiunto e sempre più valore fondamentale (v. la miss appena eletta, che, tra le lacrime di commozione per la straordinaria fortuna che l’ha appena baciata, si premura subito di dichiarare che ‘la bellezza non è tutto’, esattamente come si premura di dichiarare che ‘il denaro non è tutto’ chi in genere sa di poterne disporre a piacimento). Esaltazione del nulla, di un’ombra (l’anima contrapposta al corpo), prima; esaltazione del nulla (di una bellezza fatta assurgere a valore assoluto che non può che mortificare il corpo proprio nella sua fisicità appena recuperata), anche ora. Sacralizzazione del corpo (in negativo o in positivo) prima, ri-sacralizzazione ora.
Allo stesso modo, per quanto riguarda la pratica sessuale, la sua ‘liberazione’ – come accade quando si dà la stura ad un bisogno represso, e quindi all’ansia di recuperare tanto tempo perduto senza curarsi troppo, anzi rimuovendole, sia delle ferite tutt’altro che rimarginate, ancora presenti e operanti, provocate dalla repressione, sia delle sue cause e motivazioni – ha finito sì per rovesciare un tabù, ma spesso solo per mostrarne l’altra faccia, il rovescio della medaglia, trasformando, quello che poteva essere un bene resosi finalmente disponibile proprio perché tolto dalla sua dimensione sacralizzata (essendo ogni demonizzazione una sacralizzazione per così dire ‘in negativo’), in un nuovo oggetto di culto, caricandolo ora ‘in positivo’ del potere ‘magico’ che accompagna sempre ogni rituale, ‘ufficialmente’ sacro o meno che sia. Che esige comunque un sacrificio: nel caso, l’obbligo della prestazione, mancando la quale, o risultando al di sotto delle aspettative, produrrà lo stesso senso di colpa di quando l’espletare quella attività con eccessiva partecipazione era considerato peccaminoso. Con l’aggravante che prima della liberazione sessuale la trasgressione poteva conservare tutto il suo fascino (allo stesso modo in cui la libertà non è mai così vagheggiata, e poi goduta, come quando la si può ritagliare, conquistare, in un contesto di repressione), mentre dopo questa sua spesso mancata liberazione può scattare l’ossessione di non essere all’altezza di tanta disponibilità: da cui la gara – palese espressione di una paura che si vuole esorcizzare – a perseguire tutte le possibilità, a non tralasciarne alcuna, che si possono sempre scoprire potenziando al massimo l’attività sessuale. Col rischio, volendo esplorare a tutti i costi le sue profondità, di trovarsi di fronte ad un pozzo senza fondo, precipitando nel quale si precipita nella più totale alienazione. La sindrome di Don Giovanni (‘seduco quindi sono’), aggravata in età moderna dal progressivo prevalere della quantità sulla qualità (il ‘catalogo’ delle conquiste ne determina il vero valore), finisce per colpire indistintamente (usando male un’altra conquista: la parità, pur nella diversità, tra i sessi) uomini e donne, relegando nell’emarginazione, con relativo senso di colpa e con relative conseguenze, tutti quanti sono stati esclusi dal banchetto da Madre Natura… che anche qui si è premurata di spianare la strada solo ad alcuni gettando ai margini gli altri: la maggior parte di essi gratificati anche solo dal poter fare da ala plaudente al passaggio dei primi, mentre altri, più infelici, votati senza speranza alla frustrazione e al risentimento. O con la sola consolazione che può elargire – sempre disponibile a lenire le miserie umane, anche se, al di là della sincera dedizione di tanti religiosi, non proprio gratuitamente – Mamma Chiesa.
E anche quando si attinge il livello più alto di questa liberazione sessuale, cioè la liberazione di un eros non più sublimato, cioè non più stemperato e soffocato nella gabbia dell’amore indebitamente chiamato ‘platonico’, ma riportato alla sua piena dignità di strumento insostituibile per ogni passione vissuta senza sconti o paralizzanti ripensamenti, tutto può ritorcersi contro i suoi ‘liberatori’ se nella loro ‘memoria’ resta pur sempre operante la scissione tra mezzo e fine. Cioè tra materia e spirito, tra corpo e anima, per cui questa memoria può indurre ad una esaltazione indebita, sproporzionata, ritenuta capace di far attingere veri e propri stati di estasi, di un eros fatto assurgere a ‘energia cosmica’ che, per l’individuo, non può che tradursi in carica distruttiva, in potere alienante: la passione, e in particolare la passione amorosa, prototipo di tutte le passioni, tornerebbe (tornerà) così a travolgere i suoi attori gettandoli lontano da se stessi allo stesso modo in cui la passione che travolse Paolo e Francesca li ha fatti sprofondare all’inferno, travolgendo anche la sincera pietà del loro commosso ma impotente cantore. Il massimo di forza vitale che il corpo è ritenuto in grado di esprimere, trascende il corpo stesso e gli si rovescia contro con carica mortale nel momento in cui il corpo viene sacri-ficato ad un eros che torna ad essere Eros, un dio. E’ pur vero che quando la passione raggiunge questo livello, il ‘perdersi’ che comporta, il sacrificio che impone, sembra un prezzo che comunque merita di essere pagato, ma è proprio questo ritenere di dover sempre pagare un prezzo (e tanto più alto quanto più la vita sembra identificarsi con una sua pienezza in grado di assorbire tutte le ombre, tutti i vuoti) che rappresenta la spia di una dimensione biologica vissuta come colpa perché considerata pur sempre manifestazione, proprio in quanto esistenza biologica, di una colpa. Il dio ha operato talmente in profondità che, una volta ‘spersonalizzato’, una volta ‘ucciso’ come figura indebitamente antropomorfa, ritorna sotto le spoglie di una Natura Matrigna, tanto più perfida quanto più dispensatrice di gioie che poi si diverte a strapparci dalle mani non appena assaporate… lasciando ancora una volta solo ai poeti, alla mitopoiesi, il compito – ambiguo – di contrastarne la carica distruttiva avviluppandola, invischiandola in una trama di parole, di segni. L’unico rituale, questo del ricorso alla parola come schermo, come terapia, che in effetti – se inteso come rilancio puro e semplice, ma sempre rinnovato, della facoltà di pensare, di riflettere, e di rimettere a questa riflessione la costruzione del senso della propria esistenza come racconto, come rappresentazione, come mito nel suo significato più vero di esigenza insopprimibile – è in grado di riscattare, rendendola recuperabile in questo solo modo alla sua umanità, ogni perdita di sé, ogni abbandono di sé alla vita per poterla assaggiare fino in fondo senza venirne divorati… ma che finisce per ridiventare unicamente il solito rituale esorcizzante, cioè alienante, se si risolve o nella esaltazione di un’esperienza trascendentale, o nella lamentazione infinita per essere stati ancora una volta cacciati da un Eden appena riconquistato. E’ certo difficile separare la passione da questa sua forza che scaglia l’individuo oltre se stesso, sia come regressione estrema (il ‘ritorno’ nell’utero materno), sia come elevazione/fuga altrettanto estrema nell’Eden (la ‘nostalgia’ pur sempre dell’utero materno), perché rischia inevitabilmente di risolversi in una razionalizzazione tanto più alienante quanto più frustrante, soffocante, ma non è caricando la passione di valenze misticheggianti che se ne può evitare la carica distruttiva.
Che finirebbe (che finisce) per essere sublimata a sua volta: considerata cioè come il ‘giusto prezzo’ da pagare per una liberazione del corpo vissuta in realtà ancora e sempre come trasgressione, come colpa. Solo espiando la quale si può salvare l’‘anima’, cioè la sua ombra.



 

XXI

Il ‘teologismo’ (lo scolasticismo) è ancora dominante nella cultura dominante…

intendendo per cultura dominante non tanto i contenuti privilegiati del sapere che, in quanto privilegiati, sono i più condivisi (e viceversa), ma il modo con cui generalmente si ritiene che si debba elaborare sapere, organizzare la ricerca e la definizione di questi contenuti, legittimarli in modo da farli poi considerare legittimi. E’ ovvio che il modo dominante con cui vengono elaborati i contenuti a sua volta non può prescindere dai contenuti dominanti (si tratta di un circolo vizioso), ma si vorrebbe qui porre in primo piano le modalità di elaborazione del sapere, o comunque privilegiare questo punto di vista, gratificandolo non tanto di una sua autonomia che sicuramente non ha, ma di una qualche possibilità di resistenza, se non al circolo vizioso come carattere strutturale, ad alcuni suoi aspetti.
In una cultura fondamentalmente religiosa, non necessariamente integralista ma in cui i valori dominanti sono quelli ricavati esplicitamente da principi-valori religiosi, il ‘fare cultura’, elaborare sapere, può sì consistere anche (e per molti aspetti necessariamente) nel continuo sforzo di ridefinizione di tali principi, ma il criterio dominante, quello che poi permette di dare vita ad un sapere considerato veramente fruibile, resta in ogni caso ricondotto alla necessità di doverlo dedurre da tali principi, di confrontarlo sempre in ultima analisi con tali principi. Che sono verità considerate assolute. Dogmi. I quali pertanto, proprio per questo loro carattere di assolutezza, sarebbero del tutto inservibili se non ci si riconoscesse il diritto-dovere di scavare al loro interno, di ‘aprirli’, di sviscerarli, di dispiegarli. Di spiegarli. Per renderli in qualche modo fruibili: in fondo, l’attività culturale, il ‘fare cultura’, in simile contesto, altro non è. Ora, questa spiegazione – secondo una costante presente in tutte le religioni che si basano su un ‘libro’ considerato di origine, diretta o indiretta, divina, ma anche in tutte le altre che per re-ligare i propri fedeli non possono che presentarsi impartendo insegnamenti che, od operano come dogmi, o perdono qualsiasi efficacia – ha sempre comportato una qualche forma di ‘liberazione’ dal dogma stesso, nel senso che non poteva non portare all’esercizio di una pratica speculativa, in parte improntata ad una insuperabile discrezionalità del soggetto, della soggettività, in parte vincolata ad esigenze oggettive, pratiche, che finivano per rendere necessario ridisegnare in continuazione l’orizzonte unico all’interno del quale ci si muoveva. E così si assiste ad un gioco culturale, ad un’altalena, consistente nell’alternarsi di ‘audacie’ interpretative sconfinanti a volte nella vera e propria eresia, cui ci si ingegna di rispondere con appelli ad una purezza originaria, ad un recupero dei principi nella loro integrità, che può a sua volta costituire sia una sterzata reazionaria, integralista, sia una rilettura aggiornata, e a sua modo ‘rivoluzionaria’, dei principi stessi. E in genere si deve più a questo tentativo di rispolverare i principi per togliere loro di dosso le incrostazioni prodotte dalle varie ‘scolastiche’ e per recuperarne tutta la carica originaria, che non agli intenti dichiaratamente innovatori, il realizzarsi delle più significative ‘audacie’: ovviamente quando a ispirare questo ‘ritorno alle origini’ non è il puro e semplice riflesso reazionario. In realtà però, immettendo il tutto in una prospettiva storica il meno possibile (per quanto possibile) condizionata dal mito storicistico ‘progressista’, si può vedere come il determinarsi di questa altalena sia caratterizzato da tante spinte, di varia natura, che possono imprimere al moto altalenante una maggiore o minore ampiezza, uno spingersi della corsa più o meno in alto, ma che alla fine sempre un moto altalenante determinano: non sono cioè in grado di alterare nella sostanza un movimento che è sempre un percorrere, ora in un senso, ora nel senso contrario, una stessa strada, sempre un ritornare continuamente su se stessi, non venendo mai superato veramente – pur con tutte le spinte che a volte sembrano avere proprio questo intento non confessato – il punto morto, il momento di esaurimento di ogni impulso (il confronto non più rimandabile col dogma) che in realtà è poi l’inizio dell’impulso uguale e contrario. In altre parole, l’orizzonte culturale può ampliarsi o restringersi, ma i modi e i tempi della elaborazione culturale sono sempre scanditi dal confronto, in certi casi limite magari anche per negarli, per superarli, con principi che costituiscono però sempre i pilastri portanti di questo orizzonte: che sono soffocanti e rassicuranti allo stesso tempo: come lo sono le cure parentali, le tutele che i genitori esercitano nei confronti dei figli…
E che durano fino a che non interviene una vera e propria emancipazione da parte dei figli. Per cui il ‘fare cultura’, in questo contesto, è comunque sempre una ‘scolastica’, essendo i soggetti culturali pur sempre degli ‘scolari’. Disciplinati o riottosi, ricettivi o refrattari, pedissequi o ‘creativi’, come da sempre sono le caratteristiche di una scolaresca vista dal punto di vista del docente, ma, fin che resta dominante il punto di vista del docente, destinati a cercare, e trovare, la propria identità solo e sempre nel giudizio del docente, soprattutto a muoversi, cioè a fare esperienze culturali secondo i modi e i tempi, usando i linguaggi, scanditi dal docente: portatore comunque, solo in quanto docente, solo in funzione del suo ruolo, indipendentemente dalla sua capacità di elaborare e trasmettere sapere, dei criteri di giudizio attinti dai dogmi cui ci si deve uniformare. Ecco allora che il ‘bravo’ scolaro sarà tanto più bravo quanto più saprà utilizzare questi criteri sfruttandone tutte le potenzialità, soprattutto quando riuscirà a dimostrare che, per quanto si sia spinto in là nella sua elaborazione, in realtà non è mai andato oltre, ma è solo andato più in profondità nel sondare un campo di ricerca che è pur sempre l’unico terreno di indagine riconosciuto. Se invece fosse andato davvero oltre, più che eretico (in fondo l’eretico, se riconosciuto ufficialmente tale, diventa il necessario termine di confronto per rinsaldare il dogma, o per elaborarne un altro uguale e contrario qualora l’‘eretico’ riuscisse a convincere di essere lui il solo vero ortodosso) sarebbe un puro e semplice emarginato, un non riconosciuto. Inesistente come soggetto culturale.

A questo punto, per il pensiero ateo, due questioni:
quando, e soprattutto come, è accaduto che si sia potuto (in ogni caso creduto) rompere questa tutela, contestare e contrastare vittoriosamente questi criteri, eroderne pian piano la natura dogmatica, puntare, non tanto a sostituirli con altri criteri, quanto a superare la logica stesso del criterio dominante perché criterio soffocante?;
quali effetti ha prodotto, quali orizzonti davvero nuovi sono stati aperti nel modo di elaborare e fruire sapere, una volta addentratisi in questa nuova (o creduta tale) dimensione?
Per la prima questione, generalmente il pensiero ateo tradizionale, quello che punta tutto su una avvenuta, ritenuta ormai irreversibile, secolarizzazione, così risponde: ad un dato momento proprio la necessità comunque di spiegare i dogmi – e considerando il fatto che, pur ritenuti manifestazione di una volontà trascendente, essi sono pur sempre il prodotto, quanto meno linguistico, di una operazione umana – ha fatto acquistare coscienza a molti di come sempre più la interpretazione comportasse una vera e propria ri-creazione, di fatto, con strumenti e prospettive immanenti, di questi dogmi, fino a rendere legittimo ritenerli integralmente frutto di elaborazioni, appunto, umane, e pertanto che trovano la loro unica e vera ‘spiegazione’ riferendosi ad una matrice esclusivamente, integralmente, umana…
In realtà questa è una tesi piuttosto avventata, e comunque che potrebbe valere non per definire un fenomeno storico nella sua vera natura e portata (ammesso e non concesso che sia possibile), ma solo, o per rilevarne dei possibili risvolti più marginali che sostanziali, o per soddisfare (ma poi è la stessa cosa) un desiderio. In altre parole, è quando si cerca a tutti i costi un ‘precedente’ in una situazione che si considera in evoluzione, in continuo anche se sommerso ‘miglioramento’, che si finisce per intravederne i segni premonitori un po’ dovunque e con la funzione di legittimare a loro volta l’effettivo ‘cambiamento in meglio’ che si desidera sia avvenuto molto più di quanto in realtà non sia avvenuto: non, per lo meno, con i connotati che ci si sarebbe aspettato, ma che ci si obbliga ugualmente (tanto ne era il desiderio) a considerare verificabili.
E allora, come è avvenuto il cambiamento? O, addirittura, c’è stato davvero un cambiamento? Là dove il pensiero ateo tradizionale è portato a collocarlo storicamente, quasi sicuramente no, ma certamente c’è stato col senno di poi nel senno di poi: cioè quando si è reinterpretato tutto alla luce di nuove esigenze, magari da sempre esistenti, ma nuove in quanto emerse con forza del tutto nuova. Ora, da un certo punto di vista questo potrebbe significare ben poco, tutt’al più qualche spostamento di date – oggetto di disputa anche legittimamente accademica – per un fenomeno che comunque si dà per accaduto, e accaduto in un certo modo; oppure rientrare nella perfino ovvia considerazione che lo sguardo che si getta sul passato è pur sempre uno sguardo effettuato dal presente, per cui l’importante è che ‘ora’ tale cambiamento è da ritenere nell’ordine delle cose…
se non fosse che ciò quasi sempre significa – scambiando queste esigenze per una realtà di cui è giunto il momento di prendere atto perché si impone ‘oggettivamente’ e non, appunto, per legittimo e sacrosanto che sia, come desiderio dovuto ad una esigenza – una sorta di rimozione della natura vera (delle esigenze e dei desideri che a sua volta esprimeva) di ciò che si considera superato dal cambiamento, e quindi dei danni che aveva prodotto e che si ritiene non produca più in quanto c’è stato il cambiamento. Nel caso specifico del ‘fare cultura’, dell’elaborare sapere, il desiderio (per tanti aspetti del tutto fisiologico, naturale) della emancipazione da una dimensione ‘scolastica’, sofferta ma mai veramente analizzata anche sotto l’aspetto della sua necessità, appunto, fisiologica, ha finito per operare, sì un cambiamento, una ‘rivoluzione’, la quale però spesso è stata solo un rovesciamento delle parti, dei ruoli, per cui il semplice ricambio generazionale (filogenesi) – cioè lo ‘scolaro’ di oggi che diventa il ‘maestro’, con nuovi scolari, di domani – è fatto assurgere a rovesciamento epocale, strutturale, ad acquisizione di un modo radicalmente e definitivamente, irreversibilmente, nuovo di fare cultura (ontogenesi) che in realtà è solo una dilatazione nel tempo (non più il ricambio generazionale, ma un ricambio ritenuto, appunto, ‘epocale’) di un meccanismo che continua però, come meccanismo, ad operare nello stesso modo e con le stesse conseguenze. Dilatato nel tempo, tolto dalle dimensioni abituali in cui operava, il meccanismo finisce per far perdere di vista i suoi veri connotati, e questo è scambiato per l’affermarsi di un nuovo orizzonte, di una nuova prospettiva. Si avranno nuovi maestri e nuovi allievi, certamente, e quindi certamente ci sarà trasmissione di nuovi saperi e di nuovi metodi (nuovi ‘linguaggi’), sia di elaborazione che di acquisizione e legittimazione, di tali saperi, ma tutto avverrà pur sempre all’interno di un orizzonte, per tanti aspetti innegabilmente più ampio e più articolato, ma portato ancora e sempre a rinchiudersi più che ad aprirsi, ad agire come dimensione soffocante più che liberante. Insomma, sempre di un rapporto alienato e alienante maestro-discepoli si tratta. Dopo come prima, oggi come ieri. Perché, dando corpo alle ombre emanate dal proprio legittimo, vitale desiderio, cioè alle esigenze che tale desiderio esprimeva, si è creduto nelle ombre senza vedere ciò che le produceva, soffocando così l’esigenza: si è creduto fosse avvenuta una emancipazione quando in realtà si è solo ‘soddisfatto’ il desiderio che si aveva della stessa nel momento in cui si è passati dal ruolo di tutelati al ruolo di tutori di soggetti costretti a loro volta a desiderare l’emancipazione. Non si è eliminata una tutela: se ne sono solo rinnovati i protagonisti, scambiando questo per il suo superamento.
Si dirà: ma può esistere elaborazione e comunicazione di sapere che non avvenga all’interno comunque di una scuola, cioè di quel luogo deputato, comunque strutturato, in cui soltanto si può apprendere, e soltanto se c’è chi si impegna ad insegnare? Insomma, il rapporto pedagogico potrà sì essere anche radicalmente modificato, ma sarà mai eliminabile?… Naturalmente no, ma il rapporto pedagogico assume una funzione radicalmente diversa, con connotati diametralmente opposti, a seconda che sia o non sia una reale e-ducazione, cioè una educazione alla emancipazione: cioè a seconda che sia o non sia una pratica del sapere orientata a permettere nel modo più autonomo possibile di elaborare sapere e non solo semplicemente di trasmetterlo, o di elaborarlo come ‘compito assegnato’, come impegno da espletare la cui necessità e funzione sono sempre date, mai cercate e definite di volta in volta dagli operatori culturali. In questo modo il dogma, magari superato come riferimento obbligato cui tutto rapportare, esce dalla porta spalancata da una qualche secolarizzazione per rientrare dalla finestra del ruolo dogmatico che vi gioca pur sempre il pedagogo: cosa per altro – se ci si richiama a quella necessità di spiegare il dogma che non poteva che avvenire ad opera di un maestro (si pensi, per esempio, al ‘magistero’ della Chiesa) deputato a questo compito – sempre avvenuta anche nella più fondamentalista, integralista, delle culture, e per un fondamentalismo non meno radicale se fondato, invece che su una ‘rivelazione’ divina, su una pratica tutta risolta nell’insegnamento di un ‘maestro’; anzi, spesso il dogma, inteso come verità rivelata, è meno cogente – nel senso che può anche permettere di alzare lo sguardo al di sopra del maestro richiamando lui per primo al suo rispetto – di una pratica dell’insegnamento integralmente scaturita dalla volontà del maestro. Si potranno contestare (ci si è provati a contestare) tutti i maestri, ma sempre perché considerati ‘cattivi maestri’, non in quanto maestri; o forse sì, anche questo, ma in modo puramente strumentale, e alla fine solo e sempre per sostituirsi a loro, per occupare il loro ruolo: magari in ossequio alla necessità di una dimensione pedagogica – come si accennava – non eliminabile, ma ancora una volta trasformando questa necessità in un vincolo soffocante, e tanto più soffocante quanto più si è creduto di averlo eliminato per il solo fatto di averlo individuato e analizzato, mentre in realtà lo si è solo razionalizzato, si è cioè operato quella propedeutica alla rimozione che è sempre la funzione vera di ogni razionalizzazione. La figura del maestro che davvero intende il proprio magistero, sì come una necessità, ma una necessità che consiste prima di tutto (come scopo vero di tutta la sua indispensabile funzione pedagogico-didattica) nell’insegnare ad emanciparsi da ogni maestro per ‘educare’ veri soggetti culturali, veri elaboratori, non solo trasmettitori, di sapere, non ha mai preso piede, se non in casi eccezionali e mal sopportati dalla cultura dominante. Certo, non si può negare che lo si sia a più riprese teorizzato, auspicato, anche perseguito, avendo tra l’altro come modello storico continuamente riesumato un personaggio come Socrate, (esiste tutta una letteratura pedagogica ispirata a quella figura di maestro/non maestro), ma quando è stato cercato davvero da parte di qualcuno di staccare questa icona dall’altare su cui era stata posta e venerata per averla come reale compagna di strada e non solo come mito, il riflesso ‘teologico’ è puntualmente scattato per vedere di recuperare subito un terreno più solido, più rassicurante, in grado di lasciarsi coltivare con la certezza di poterne conoscere in anticipo i frutti, di non avere troppe sorprese: la scuola, appena messa in discussione, appena contestata, si è presa subito la sua rivincita ‘scolarizzando’ la stessa contestazione, creando subito una nuova ‘scolastica’.
Con i suoi funzionari, i suoi addetti ai lavori, i suoi ‘guardiani’: tutti dotati di nuovi nomi, di nuovi ambiti di riconoscimento, di nuovi linguaggi, di nuove procedure legittimanti, ma legittimate e riconosciute solo e sempre se organiche ad obiettivi stabiliti sulle loro teste…
ma – ecco i connotati emergenti della nuova scolastica – stabiliti secondo criteri improntati, a dispetto di un quadro di proclamata e conclamata scientificità, alla più trionfante casualità: in ossequio – in spregio ai dogmi, ai principi… e alla coerenza – alla avvenuta liberazione! Il tutto dovuto a cosa, reso necessario da cosa? Dalla frantumazione dei vecchi dogmi non accompagnata da una vera emancipazione dagli stessi. Da una ‘anarchia’ vissuta solo come ribellione. Perché infatti, in modo solo apparentemente contraddittorio, in realtà secondo una logica tipica di ogni situazione ‘schizofrenica’, falsamente anarchica, è successo che dei dogmi e della loro funzione rassicurante si è provata una struggente nostalgia, e si è operato a tentoni sperando di trovare nel buio un qualche squarcio di luce, disposti a questo punto a restare abbagliati anche dalla più flebile fiammella rimasta accesa qua e là, spesso niente altro che residui delle vecchie dottrine, cui ci si è aggrappati nel marasma attribuendogli subito l’etichetta di scoperta epocale. Il bisogno, mai venuto meno, di una qualche illuminazione proveniente da un qualche ‘luogo lontano’, orienta pur sempre la elaborazione del sapere, disposti, pur di usufruire di una qualche tutela, a dare la patente di ‘maestro’ a chiunque (a Chiunque) – in buona fede, o approfittando della situazione, adesso non importa qui stabilirlo – si sente e si propone come tale. E si propone puntando oltre tutto, per legittimare il suo ruolo, sulla denuncia, facile da allestire, del fallimento dei vecchi maestri, senza minimamente avvedersi che tale fallimento era ed è del tutto implicito non tanto nei contenuti, o nei modi, del loro insegnamento (sempre necessariamente transeunti, soggetti al divenire, ma anche sempre attuali in quanto sempre da ridefinire), quanto nel loro essere considerati maestri: esattamente come si considera, o comunque viene considerato, lui ora. Ed esattamente come nel passato, con diverso ora soltanto una accelerazione nevrotica di tutti i tempi di tale distruzione-costruzione-distruzione…
Tradotto, tutto questo, può diventare, spesso diventa, una frenetica rincorsa ‘revisionista’ a rifare le bucce a questo e a quello, in una polemica infinita di tutti contro tutti, rinfacciando gli uni agli altri di non capire il ‘nuovo che avanza’, di essere dei sopravvissuti, di essere ancora attardati a ‘parlare di’, anche se solo ci si provasse a riprendere e analizzare una ‘scoperta epocale’ dell’altro ieri; parallelamente – in realtà conseguentemente – si tentano sempre e incessantemente nuove prospettive, si propongono sempre nuovi scenari, nuove ‘letture’ di questo e quello, nuovi linguaggi, con un impegno nella ricerca che sarebbe anche (e, sia pure raramente, talvolta è) altamente meritorio se non fosse dominato – e quindi soffocato sul nascere – da una frenesia fabbricitaria che non lascia alcuno spazio ad una riflessione che non sia, lo si voglia o no, dettata da questa ansia, da questo terrore di vedersi sorpassare nella rincorsa alla novità. E puntando di fatto a costruirsi pur sempre un qualche nume tutelare un qualche maestro: o scelto di volta in volta, o, per i più audaci, magari identificandolo proprio nel caos. Assurto a Caos, a divinità. E anche il proclamarsi ‘inattuale’ è poco più di un espediente per farsi riconoscere se inattuali non lo si è veramente, senza bisogno di autoproclamarsi tali: nel qual caso, se si fosse veramente inattuali, ancora e sempre ci si condannerebbe alla più totale invisibilità. Ennesimo ricatto, ennesimo circolo vizioso.
E infinite sono le analisi e le denunce anche di questa situazione, con una ostentazione di consapevolezze senza alcun dubbio necessarie e potenzialmente illuminanti, ma che non servono a niente, destinate come sono ad elidersi l’una con l’altra, ad annullarsi reciprocamente, se maturate in questo clima di conflittualità permanente per sopravanzarsi in consapevolezza. (Come inesorabilmente sta avvenendo anche con queste note, le quali per altro cercano disperatamente di evitare il loro destino di ennesima nuova inutile consapevolezza, (v. Pietro M. Toesca, Il falso scopo, ed. Nuovi Quaderni,2002) solo per la convinzione di costituire un’alternativa ad una inutilità ancora maggiore, e, più ancora che inutile, dannosa: l’afasia).
Insomma, sembra, e indubbiamente ne mostra tutti i caratteri, il rinnovarsi della condanna biblica che colpì gli empi costruttori della Torre di Babele, che gettò nella confusione chi allora aveva osato non seguire più gli insegnamenti divini e ‘mettersi in proprio’, erigendo il monumento a se stessi invece che al loro Signore, e fissando da allora, per il popolo che si identificherà nel Libro, l’inesorabile legge per cui, quando ci si ribella alla tutela, si perde ogni punto di riferimento, e non ci si può che ritrovare soli e smarriti senza sapere che farne della libertà appena conquistata una volta sbollita l’euforia del momento. La quale porta a tentare tutte le strade, a inoltrarsi dove prima non si riteneva nemmeno potessero esserci tratti percorribili, ma sempre trascinando con sé un senso di colpa per l’uccisione del Padre che colora ogni volta di ‘straordinarietà’ ogni nuova scoperta, cioè la sacralizza costringendo i suoi stessi scopritori a diventarne oggetti anziché soggetti. Agiti, invece che autori. Più grande, più dirompente, è il sacrilegio, più predispone – essendo vissuto quasi sempre, sì come sacrilegio, ma rifiutandosi di riconoscerlo (rimuovendolo) perché non se ne riconosce l’origine in se stessi – a scontarne le conseguenze. A ‘volerle’ inconsciamente.
Da cui la sempre rinnovata ambivalenza di ogni acquisizione dovuta alla elaborazione culturale, la sua doppia valenza di strumento di liberazione e, in modo perfettamente speculare, di autocostrizione; di ‘progresso-ma-non-si-sa-verso-che-cosa’, che diventa subito per ciò stesso pauroso vicolo cieco, salto nel buio; di ‘sviluppo delle arti e delle scienze’ che fa sorgere già in alcuni tra i suoi primi ma più sensibili fautori un dubbio corrosivo circa l’effettivo beneficio che ne trarrà l’umanità. Che infatti ne ha tratto ben pochi benefici; o anche molti, ma sempre accompagnati da un rovescio della medaglia che mai ci si è potuto scrollare di dosso, che ha eliminato da subito dal loro orizzonte la maggior parte dei possibili beneficiari a vantaggio di pochi, per altro più frastornati che in grado veramente di goderne, alimentando, e legittimando, ogni visione apocalittica. Ogni rigurgito oscurantista. Ogni rivendicazione guidata dai re-ligatori degli esclusi.
Perché l’emancipazione, là dove si crede ci sia stata, è stata quasi sempre solo un atto di ribellione, una manifestazione di insofferenza, indubbiamente per tanti aspetti necessaria, inevitabile in quanto fisiologica, ma, non rendendosi conto di quanto fosse fisiologica, si è risolta quasi sempre in se stessa, paga di se stessa, offrendo il fianco indifesa a tutti i ritorni – a volte espliciti, a volte, i più subdoli, sotterranei – di autoritarismi, comunque travestiti: che per un verso hanno continuato ad alimentare la rassicurante leggenda, la subdola favola, del ‘figliol prodigo’, e per altro verso hanno aumentato a dismisura il senso di frustrazione, di impotenza. Prodromi sicuri di spinte autodistruttive.

La Torre di Babele è diventata tale perché ci si è ribellati alla tutela divina nel timore della ritorsione divina, puntualmente avvenuta in quanto provocata da questo timore; la confusione delle lingue, dei linguaggi, non è altro che la conseguenza del terrore di trovarsi soli ad ascoltare se stessi una volta che si è provato a considerare che le ‘voci’ provenienti da fuori in realtà provenivano da dentro. Una volta scoperto che il sapere, la conoscenza, non esistono in alcun luogo al quale si può sperare di accedere trovandovi ad attenderci un munifico dispensatore, e scoperto che munifico non è, ma, anzi, terribilmente micragnoso, invece di togliergli la delega e di abbandonarlo al suo destino, ci si è arrabbiati con lui.
Preparandosi a subirne le ritorsioni, andando nel frattempo alla disperata ricerca di un nuovo linguaggio, di una nuova grammatica con nuove regole, con nuove procedure, a cui si chiede in realtà di operare come dogmi, come nuovi principi assoluti in sostituzione di quelli vecchi, sbriciolati dalla deriva babelica, da cui trarre le coordinate per elaborare sapere. E così la situazione in cui ci si è cacciati, caratterizzata da questo caos vissuto come ‘confusione delle lingue’, ha imposto il nuovo padre padrone, il nuovo nume cui sacrificare tutto il sacrificabile pur di vederlo benevolmente concedere un po’ di ‘verità’ da spendere per tutte le necessità: il linguaggio.
Da cui tutto si attende; dall’interno del cui orizzonte si viene articolando la nuova scolastica, si vanno organizzando i nuovi rituali da officiare predisposti dai nuovi maestri da venerare, per nuovi discepoli vogliosi di svolgere il nuovo tema…
Come se il linguaggio, la parola, fossero qualcosa di separabile dalla condizione umana: quella condizione umana che costituisce l’unico ‘maestro’ di cui tutti dobbiamo sentirci ‘scolari’, da cui tutti dobbiamo imparare a imparare aiutandoci a vicenda nell’impresa, senza ritenere di doverla ‘ricavare’ da un qualche nume tutelare, da qualche suo ‘rappresentante’.


 

 


XXII

Ricerca delle radici’, o fuga dal presente?

Il bisogno di ritrovare le proprie radici! Cos’è, se non il bisogno, e quindi l’esigenza, di vivere anche il tempo che non è mai stato vissuto ma che in qualche modo ci riguarda, perché è pur sempre un tempo ‘nostro’? Vissuto veramente da tanti sconosciuti, ma anche solo nostro, perché preparatorio della nostra entrata in scena, costitutivo dell’eredità che ci troviamo in dote…
Ma può anche essere solo l’ombra del passato che si proietta insistentemente sul presente, finendo per costituire il presente come ombra del passato, per avvolgere il presente e ‘trasferirlo’ in una dimensione che non può essere la sua se non al prezzo di dimenticarsi totalmente come presente. Di fuggire il presente. Insomma, di alienarsi.

C’è un legittimo (e comunque inevitabile) desiderio – di fronte ad un presente che ci vede scagliati sulla scena da qualcosa o qualcuno che certamente c’è ma che possiamo conoscere, come esperienza effettiva, tutt’al più solo nella sua, diciamo, ultima versione, per forza di cose limitata, e in ogni caso evidentemente a sua volta proiettato nella nostra prossimità anch’esso da qualcosa o qualcuno di più remota provenienza – di ancorare questo presente a ciò che, altrettanto evidentemente, è stato il responsabile primo (e quindi il presumibile detentore del suo significato vero) della nostra esistenza, e che si è cercato di soddisfare (o comunque di prendere in considerazione e affrontare) in vari modi. Due, in buona sostanza:
un modo, per così dire, classico, e che costituisce uno dei cardini costitutivi di tutte le religioni, è – con una sua coerenza che ne costituisce la strutturale suggestione – il trovare l’ancoraggio in una dimensione che non può che sfuggire alla nostra esperienza diretta (e qui sta la sua indubbia coerenza), ma che in qualche modo si vuole far entrare ugualmente nel campo della nostra esperienza, non sopportando che il desiderio/bisogno sia destinato a restare sempre tale, cioè pura esigenza, generatrice di sofferenza. E a questo punto la coerenza quasi sempre abbandona il campo e lascia il posto alla negazione di se stessa… negazione che sembra sconfiggere (e in ogni caso lo vorrebbe) il messaggio inquietante, angosciante, proveniente dal rispetto della coerenza, ma che in realtà istituisce solo il circolo vizioso che sta all’origine della istituzione della trascendenza. Delle religioni, appunto;
l’altro modo – che può essere sia una articolazione di questo primo, sia (almeno nelle intenzioni) una alternativa ad esso – è quel cammino a ritroso nel tempo e nella memoria che ricerca radici rintracciabili nel tempo storico. Ora, tale cammino diventerà più che altro virtuale (e rituale) per chi ritiene poi che solo nella trascendenza si possa trovare il vero punto d’arrivo di questo viaggio a ritroso, per cui in realtà, una volta trovato questo approdo, tutto ciò che si era rintracciato durante il viaggio prima dell’approdo perde quasi per intero la sua consistenza ‘storica’ in quanto proiettato in un aldilà che è soprattutto proprio un ‘al di là della storia’. In altre parole, il viaggio alla ricerca delle proprie radici, può anche partire da un passato prossimo agevolmente esperibile con l’intenzione di procedere tenendo conto solo delle sue indicazioni, ma se poi, di fronte alla nebbia progressivamente sempre più densa che inevitabilmente avvolgerà i passi successivi, non solo farà ritenere inutili quelle indicazioni, ma spingerà a ritenere sbagliato il modo di procedere adottato, ecco che un viaggio intrapreso con intenti ‘scientifici’ si trasformerà in un balzo tendente a scavalcare di slancio tante inutili tracce per atterrare su un terreno (che sarà quello della trascendenza) che non dovrà la sua consistenza a nessuna di queste tracce, che non dovrà temere verifiche ingannevoli perché non abbisognerà di alcuna verifica che non sia già in esso contenuta; con la conseguenza di annullare invece come ingannevoli tutti i riscontri fatti in precedenza e di finire per dar credito solo alla deduzione, condannando, o relegandola a procedimento incapace di portare a qualche verità non confutabile, l’induzione. Il passato, invece di essere indagato partendo dal presente e sulla scorta di un viaggio che non può che essere un viaggio verso l’ignoto con la sola indicazione di rotta possibile, cioè quella ricavata dal presente, finirà per essere ‘recuperato’ avendo come indicazione di marcia il punto d’arrivo, come faro per illuminare la rotta ciò che di fatto rende inutile ogni vero cammino finendo per essere il faro stesso lo scopo del cammino. Quindi, più che un modo alternativo di recuperare il proprio passato rispetto a chi punta subito esplicitamente a rintracciarlo nella trascendenza, questo riferimento all’immanenza è solo un tentativo di legittimare a posteriori (in realtà a priori) la necessità della trascendenza. Anche se non ha certamente mai potuto essere così lineare come qui, per comodità, si è prospettato…
E per la verità infatti spesso è venuto a colludere – generando gran parte delle ambiguità, o dei veri e propri equivoci, che qui si vorrebbero evidenziare – con chi invece ha inteso, e intende, restare fedele, nonostante il sopravvenire di sempre nuovi ostacoli, ad un viaggio alla ricerca delle proprie radici improntato al rispetto più scrupoloso possibile di un tempo storico vissuto come tempo dell’uomo, costruito e scandito sulle sue necessità, cioè identificabile poi nei modi con cui l’umanità ha fatto fronte alle esigenze provocate da queste necessità: insomma, con chi ha inteso, e intende, muoversi nella prospettiva laica.
Prospettiva laica però che, se si ritiene debba dare soddisfazione piena alla esigenza di rintracciare ‘da dove’ il presente trovi la sua giustificazione, si traduce in un compito che si manifesta da subito come presso che impossibile. Non la può dare, una soddisfazione piena, né una storiografia laica pur essendo di questa ricerca il supporto insostituibile, né un viaggio tutto risolto in una introspezione che, nella migliore delle ipotesi, rintraccerà ‘radici’ ascrivibili a storie individuali che, oltre che parziali già in sé, sono generalizzabili solo al prezzo, o di forzature arbitrarie, o con intenti consapevolmente strumentali. Di una strumentalità per tanti aspetti sicuramente utile e necessaria, soprattutto come terapia, in grado anche di offrire proprio nuovi strumenti coi quali supportare il viaggio alla ricerca delle radici, ma che non farà altro, da questo punto di vista, che ampliare un orizzonte mostrando per ciò stesso nel contempo quanto più lontane invece che più vicine si prospettino queste radici. Mentre una storiografia laica, cioè tendente soprattutto a liberarsi, nel suo tentativo di leggere e descrivere un passato che serva al presente, di ideologie deformanti, proprio quanto più riuscirà a restare fedele a questo suo intento, tanto più non potrà non rendersi conto di come illusorio sia cercare nel passato una qualche indicazione veramente utile per il presente. Che è poi, la ricerca di questo utile, la vera esigenza che spinge alla ricerca delle radici…
Ma proprio questi scacchi – questi vicoli ciechi cui conduce l’esigenza necessariamente tradita se si pretende di soddisfarla con il reperimento di una qualche conoscenza decisiva in tal senso – aprono al rischio, spesso tutt’altro che evitato, di ricadere, per dritto o per traverso, nella trappola della trascendenza, ancorchè ‘camuffata’.
Della ‘sacralizzazione’ dell’inconscio, cioè dell’esito spesso alienante cui perviene la cosiddetta ‘psicologia del profondo’ nel suo viaggio alla ricerca delle fonti della vita della coscienza, cioè delle fonti del presente consapevole, si è già parlato, anche direttamente, trattando della cosiddetta creatività (par. XV): la ricerca delle radici, per tanti versi con giusta intuizione orientata a muoversi nell’interiorità, di fronte al mistero – e quindi alla insondabilità di fatto – che costituisce, per così dire, ‘il fondo del profondo’, invece di orientare a confrontarsi ‘alla pari’ col mistero (prenderne atto e viverlo come tale senza farsene schiacciare), ha spinto a inchinarsi in adorazione di questa matrice inconscia della coscienza elevandola a divinità cui tutto sacrificare…
Ma esito spesso analogo, anche se seguendo tutt’altro itinerario, ha avuto e continua ad avere quell’esigenza di risalire alle origini vere del presente che sottende, più o meno consapevolmente, ogni operazione tendente a riappropriarsi del passato delegata istituzionalmente allo storico. Alla storiografia. Per laica – come si diceva – che intenda essere.
Per la verità lo storico di professione animato da spirito scientifico non si prefigge alcun obiettivo determinato da alcuna ‘ricerca delle radici’, e intende solo esplorare il passato, usando tutti gli strumenti che scopre di volta in volta utili, per rispondere ad una esigenza conoscitiva che si sforza di considerare solo come tale, lasciando ad altri, o comunque all’esistenza di esigenze di altra natura, l’eventuale utilizzo di tali conoscenze; e anche una volta abbandonato per strada, e ormai da tempo, l’ingenuo mito positivista della ‘obiettività pura’, si sforzerà pur sempre di non farsi condizionare più di tanto da esigenze che ne inficerebbero l’obiettività comunque necessaria pur nel suo inevitabile relativismo… In realtà lo storico di professione – come ogni altro operatore culturale ‘professionista’ – se volesse integralmente muoversi nella consapevolezza di tale relativismo non riuscirebbe in alcun modo a ‘salvare’ la propria professione, ma in genere, cosciente di ciò, punta ad un compromesso che ritiene pur sempre utile, ancorché necessario…
Ma utile per che cosa? Cosa resta dopo che si è convenuto di dover ridurre al minimo ogni pretesa di conoscenza? A cosa servirà questa esplorazione di un passato destinato a colorarsi di tutte le sfumature che su di esso getterà il presente e quindi che servirà a tutto meno che a ridarci il suo colore originario? Se non riemergesse – consapevoli o meno che se ne sia – l’esigenza primaria di ‘risalire alle radici’, il persistere nel voler rispettare ostinatamente una deontologia scientifica servirebbe solo, o ad autoingannarsi circa questo rispetto, o all’asservimento di fatto (ma si tratta delle due facce di una stessa medaglia) ad una qualche ideologia… Che potrà essere o meno dichiarata, ma che non potrà che essere, di fatto, una ‘filosofia della storia’, anch’essa più o meno esplicitata; la quale a sua volta non potrà essere che, semplicemente, una ‘filosofia’, nel senso di una weltanshauung: di quelle che intendono rispondere ‘positivamente’ ai quesiti esistenziali. E di cui ‘la ricerca delle radici’ costituisce uno degli imperativi strutturali. Insomma, ancora una volta, cacciata dalla porta l’illusione di poter dare una risposta ‘positiva’ ad una esigenza, se si presume così di aver cancellato anche l’esigenza, essa rientrerà subdolamente dalla finestra mentre si continuerà a tener d’occhio la porta. Per usare un’altra metafora, una volta spogliatisi di tutti gli abiti che la necessità di far fronte al ‘freddo’ dell’esistenza aveva indotto a cucirsi addosso, invece di essersi veramente liberati di tanti inutili orpelli, ci si è solo ritrovati nudi e indifesi alla disperata ricerca di qualcosa con cui tornare a ricoprirsi…
E la ‘ricerca delle radici’ ha finito per riproporsi pur sempre come ciò che solo potrebbe preservare dal freddo di un’esistenza lasciata senza ‘copertura’. La pretesa scientifica può anche rimanere, ma, come si accennava, o si troverà sbilanciata senza rimedio in funzione di una qualche ideologia, sommersa o dichiarata che sia, oppure verrà, con una radicale inversione di rotta vissuta come liberazione, del tutto ripudiata, lasciando così via libera – in modo che vorrebbe essere disincantato, in realtà con tanta iattanza – alla scorribanda in un passato in cui si considererà lecito rincorrere tutti i miti e abbeverarvisi proprio in quanto miti. Magari anche facendosi largo faticosamente lungo una strada meritevole davvero di essere percorsa (la consapevolezza che comunque tutto ciò che si tramanda non può che essere, sia come dato rintracciato che come sua riproposta e interpretazione, mitopoiesi: da cui la delega, per quanto a sua volta ambigua, al puro godimento estetico, quello assolutamente gratuito, gratificante in quanto gratuito, del soddisfacimento che può dare lo sguardo gettato sul passato), ma più spesso gratificati e sazi di questa immersione in una sorta di liquido amniotico storico.

E così, in un modo o nell’altro – coll’asservimento ad una ideologia che assumerà inevitabilmente i caratteri della trascendenza con la sua funzione di filtro deformante inconsapevole di essere tale, oppure, consapevoli di ciò, con l’abbandono di ogni remora costituita da una ricerca ‘pura’ attratti solo dalla forza consolatoria del mito – il passato (le presunte ‘radici’) si impossesserà di un presente che avrà rinunciato a se stesso pur non potendo essere altro che se stesso. Un ‘se stesso’ con le proprie paure rimosse, con i propri limiti rifiutati, con le proprie esigenze di conoscenza tradite da una impazienza che lo ha spinto a dare credito a tutti i miraggi in grado di illuderlo sulla capacità del passato di rischiarargli la strada, di far luce sul suo cammino. Il presente, guardando dietro di sé, ha ritenuto che l’ombra che stava gettando, invece di essere la propria inevitabile proiezione, avesse origine da una fonte luminosa da rintracciare ad ogni costo…
E la ricerca di un ‘santo Graal’ non ha ancora finito di far camminare tanta umanità solo sui sentieri della propria immaginazione – cioè dei propri desideri, delle proprie esigenze – convinta di essere sulla strada maestra della conoscenza vera, definitiva. Incurante dell’abisso in cui invece finisce sempre per precipitare e da cui faticosamente cercherà di risalire…
Ma sembra proprio che l’umanità (meglio, l’Umanità, cioè i singoli uomini abbacinati da questa alienante astrazione) una volta risalita, forse per ripagarsi della fatica, mostri ancor sempre l’intenzione – seguendo quei suoi componenti che si sono autodelegati a guidarla convincendo gli altri, i più, del loro essere ‘necessari’, del loro essere detentori di una delega, in senso letterale o figurato, divina – di lasciarsi trascinare da quella forza centrifuga che illude da sempre di scagliarla tra le stelle.